The Social Dilemma (netflix sett.2020)

Una tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. (Arthur C. Clarke)

 

The Social Dilemma, il documentario presentato su Netflix a settembre di quest’anno,comprende numerose interviste a protagonisti della Silicon Valley, docenti ed esperti in varie discipline (Tristan Harris, Tim Kendall, Justin Rosenstein, Jaron Lanier, Roger McNamee, Shoshana Zuboff, Anna Lembke, e molti altri/e), intervallate da scenette esemplari (una famiglia tipica, i tecnici del social) e immagini dei telegiornali, spesso riprese di incidenti e scontri in un’America sempre più “polarizzata”.  L’ascesa dei social (si parla non soltanto di Facebook ma anche di Google, Amazon, Instagram, Twitter, etc., insomma tutti i big della Silicon Valley) viene definita come tecnologia della persuasione e capitalismo della sorveglianza attraverso la raccolta sempre più sofisticata dei dati e metadati per scopi di mero profitto (profitto esponenziale!), che genera una dipendenza non dissimile dalle droghe, e causa di importanti riflessi sulla salute mentale (ansia, depressione, disturbi emotivi, suicidi), sulla politica (Cambridge Analytica, elezione di Trump, Brexit, Myanmar, estremismo o “tribalismo” diffuso), nonchè all’origine della diffusione virale delle fake news e delle tante teorie cospirazioniste (Pizzagate, terrapiattisti, fino ai più recenti no vaxx e no mask).

Gli interventi sono presentati senza fronzoli attraverso un rapido montaggio in cui autori ed esperti si soffermano continuamente su alcuni aspetti dei social divenuti ormai preoccupanti. Se all’inizio, infatti, la maggior parte degli intervistati riteneva i social media “una cosa positiva”, un fenomeno che apportava “cambiamenti positivi”, nel corso degli anni successivi molti si sono ricreduti, per perplessità di carattere etico e per le conseguenze impreviste (salute mentale, dipendenza, bufale, bolle, riflessi politici e culturali). Uno dei leit motiv di The social dilemma è il timore che, attraverso i fenomeni virali dei social,  si stia diffondendo una imprevedibile disgregazione del tessuto sociale e della democrazia (della democrazia americana in particolare).

Nel corso dei 90 minuti circa del documentario, gli argomenti, meritevoli anche di ulteriori approfondimenti, vanno da quelli specifici della tecnologia ( economia dell’attenzione, dati e metadati, la tecnologia della persuasione, esperimenti e test sugli utenti, l’Intelligenza Artificiale) a quelli psicologici (la gratificazione e la dipendenza, la manipolazione, le malattie come depressione, ansia, disturbi del sonno, i suicidi, etc.), fino alle ricadute sociali e politiche ( la disinformazione, il Pizzagate, il controllo politico e le teorie del complotto, l’attacco alla democrazia, la crisi della civiltà, timori di guerra civile e futuri distopici). Un ampio ventaglio di temi, che si conclude con qualche ipotesi di regolamentazione della tecnologia, in particolare sul modello di business, e le soluzioni individuali e collettive da adottare, per ridurre l’esposizione ai social e ai loro trucchi di coinvolgimento emotivo, dalla verifica delle fonti fino alla cancellazione degli account.

 

 

“Senti, so perfettamente che non convincerò tutti a cancellare gli account dei social, ma qualcuno sì. Convincere alcune persone a cancellare l’account è importante, perchè questo crea lo spazio di un dialogo, perchè voglio che ci siano abbastanza persone libere dai motori di manipolazione, perciò, fatelo! Uscite dal sistema. Sì, cancella. Abbandona queste sciocchezze. Il mondo è bello. Guarda, lì fuori è fantastico. “ (Jaron Lanier, pioniere delle Realtà Virtuali).

Frammenti di complottismo

Nella prima fase della pandemia, da fine gennaio fino al primo mese di lockdown, il consueto complottismo strillato quotidianamente in rete e sui media è stato piuttosto sottotono, dimesso e impotente, come schiacciato dai fatti. Le obiezioni alla diffusione del virus e all’iniziativa ufficiale del governo, le cosiddette “istanze complottiste” (Andrea Zhok), in realtà erano e sono tuttora, anche a posteriori,  tentativi di minimizzare la pandemia (“è una semplice influenza”) o di ridicolizzarne singoli aspetti (“le mascherine non servono a nulla”), senza tuttavia raggiungere le vette di una “teoria del complotto” e dei suoi fervori mistici e mitologici. Infatti, il complottismo funziona quando l’oggetto delle sue attenzioni è sufficientemente lontano e mitizzato (sbarco sulla Luna, Torri Gemelle, etc.), non quando intere nazioni sono impegnate duramente e quotidianamente a contrastare l’ecatombe. Nella cultura popolare, come pure nell’organizzazione statale,una pandemia viene presa sul serio, e la serietà non costituisce argomento per l’isterismo dei social. Non a caso ne ha sofferto anche la macchina propagandistica dei cosiddetti “sovranisti” o “populisti”, Salvini in testa, costretti a rincorrere il fenomeno o a sparare qualche petardo innocuo, oppure a dire tutto e il contrario di tutto nell’arco di una giornata, come taluni cosiddetti “governatori”, giusto per rivendicare una qualche forma di presenza e di “utilità” (che talvolta si è rivelata “inutilità” o “dannosità”, come per il “caso Lombardia”). Del complottismo, vengono riutilizzati  frammenti sparsi del suo “stile paranoico”, come ebbe a definirlo Richard Hofstadter in un suo celebre articolo del 1964, “The Paranoid Style in American Politics”, Harper Magazine, 1964).

Quel che mi ha colpito nella prima fase, più dei “complottisti” tradizionali o dei siti di fake news, costretti ancora a giocare di rimessa, è stata la convergenza, anche involontaria, fra i “liberisti” che spingevano per una rapida riapertura delle attività, e i “libertari” (anarchici, anti-sistema, ex ’68, antagonisti, “alternativi”) pronti a cavalcare la tigre dello “stato d’eccezione” ai fini di controllo, manipolazione, Grandi Fratelli o complotti cinesi. Al punto che un noto esponente No Tav si dichiarava d’accordo con la destra salviniana, cioè con le sparate quotidiane di alcuni “governatori” del Nord. Dall’anarco-individualismo al liberismo-libertario, fino alla difesa delle movide, contro “delatori” e assistenti civici. In nome del “capitalismo della seduzione” (M.Clouscard, 1980; G.Lipovetsky, 2017).

 

Un’altra categoria di neo-alternativi pronti ad usare frammenti di complottismo sono i discendenti di alcuni generi e sottoculture post-punk degli anni ’80, come ad esempio l’apocalyptic folk, o neo folk, l’industrial music , nelle sue varie derivazioni “psychic”, “ritual”, “esoteriche”, psychedelic rock, electro-industrial, EBM, etc. Sarebbe interessante ripercorrere le tappe fondamentali della riscoperta del complottismo da parte di questa scena , a partire dalla band fondamentale, Throbbing Gristle da cui poi è venuto fuori Psychic TV, fino alle pubblicazioni che ne parlavano fin dal principio (come Re/Search o Vague). Di fatto è una “scena” che fa un uso abbastanza divulgativo non solo di temi “esoterici” (Crowley) ma anche dell’immaginario apocalittico-millenarista, fino alle banalizzazioni più recenti. Ma quel che importa qui, non è tanto fare del debunking, denunciando il carattere posticcio di questo immaginario (Vittore Baroni) (elemento tipico del resto anche di altri generi musicali, come il metal, ad esempio) quanto constatare che, a distanza di oltre 30 anni, esiste una minoranza di questo tipo, diversa dal complottismo alt-right o della destra estrema (anche quando alcuni singoli protagonisti ne facciano parte). Ma che di fatto converge nella stessa “confusione disorganizzata” di cui parla Fagan nel suo post.

Man mano che da aprile in poi si è cominciato a parlare di “ripartenza” e “Fase 2”, la galassia complottista ha ripreso coraggio, spinta peraltro dalle litanie e dalle strategie comunicative del Trump pensiero. Si dice Trump proprio perchè è evidente che la crisi sanitaria determinata dal corona virus si è innestata su una crisi economica, sociale e politica della superpotenza  americana e del sistema neo-liberista, che potrebbe avere effetti devastanti per l’intero sistema occidentale, e sul mondo intero, a seconda dei capri espiatori che verranno individuati. Dopo aver tentato, per tutta la prima fase, di minimizzare la pandemia,  e ripetuto ossessivamente che era necessario “ripartire”, nella seconda fase l’armamentario complottista e bufalaro sta ripartendo alla grande, rimescolando insieme negazionismo (“non c’è nessun virus”), pseudo rivelazioni, ridicoli “movimenti” contro le mascherine (Pappalardo, fascisti del terzo millennio), dubbi statistici e sanitari, Big Pharma, G5, Bill Gates, OMS, Rotschild, Illuminati di vario tipo. E Cina, ovviamente:

 

“Il virus non c’è, se c’è non è così grave, se è grave è colpa dei cinesi, comunque è meno grave della crisi economica che porterà, meno grave della perdita della libertà, comunque poi arriva qualche vaccino, forse. C’è una marea montante di agenti confusionari sul fronte informativo, di agitatori politici su quello sociale, tutti tesi a “gestire” il problema” (Pierluigi Fagan, post del 31 maggio).

Jean Baudrillard artista del pensiero – Conversazione con Marine Dupuis Baudrillard

Conversazione con Marine Dupuis Baudrillard*

a cura di Tommaso Fagioli ed Eleonora de Conciliis

«L’alterità è il nostro destino… e la volontà cospira con chi ci tocca in sorte»

Marine Dupuis Baudrillard

À rebours

tratto da Losguardo.net, Rivista di filosofia, nr. 23, 2017, “Reinventare il reale”- Jean Baudrillard (2007-2017)

 

Archivio 23 | Reinventare il Reale – Jean Baudrillard 2007-2017

* L’intervista si è svolta il 1° luglio 2016, nella casa di Jean e Marine Baudrillard in Rue Saint- Beuve, a Parigi. Si ringrazia Elisa Fuksas, che ha fatto da interprete tra Tommaso e Marine, e Fausto Fraisopi per aver effettuato una prima sbobinatura-traduzione della registrazione della conversazione fra i tre, estremamente colloquiale, che è stata poi integrata con alcune domande che Fagioli aveva precedentemente inviato a Marine, per essere adattata alla pagina scritta [N.d.C.]

 

(riprendo questa bella intervista alla moglie del filosofo Jean Baudrillard, scomparso nel 2007, come introduzione oltre che all’ottimo numero della rivista Lo sguardo.net a lui dedicato, che invito a leggere e scaricare, anche ad una mia rivisitazione di alcuni temi a lui cari, dalla seduzione ai simulacri  SB)

 

FAGIOLI – Baudrillard è nato nella città di Reims, nel nord-est della Francia, sede di una delle più famose cattedrali della cristianità. I suoi nonni erano contadini, e i suoi genitori dei funzionari civili. Che rapporto aveva con le proprie radici?

DUPUIS – Ha cominciato a imparare il tedesco, con l’intenzione di tirarsi fuori da una famiglia molto modesta di cui non amava [la mentalità]… Sua madre faceva la postina, suo padre era un gendarme: era qualcosa da cui voleva assolutamente allontanarsi. A ciò si può chiaramente aggiungere molto altro, ma il tutto dà come risultato una persona che è stata obbligata a vivere la sua intelligenza accanto a questa realtà. È invidiabile ? Non ne sono sicura, perché lui [J.B.] era, come dire …ossessionato da tutto ciò, e quindi diceva di me: “Marine è la vita”. Questo significa che rappresentavo per lui in qualche modo un’interfaccia [con la vita]. Perché lui era, ripeto, ossessionato, [dalla vita come da] una piccola cosa che cade dal cielo.

FAGIOLI – La propria vita in retrospettiva sembra tutto fuorché libera, razionale, e arbitraria, come guidata da un’inesorabile necessità mascherata dagli artifizi del caso – inclusi gli incontri. In quali circostanze vi siete conosciuti?

DUPUIS – Ho incontrato Jean a Nanterre nel 1970, tornavo da un giro del mondo in barca con il mio fidanzato. Ero ancora molto giovane e abitavo su una casa galleggiante [peniche]. Jean mi ha chiamata sin dall’inizio Marine, ma mi chiamavo Martine, e dopo questo è iniziato tutto.

 

FAGIOLI – E per tutta la vita!

 

DUPUIS – Ancora oggi, quando vado a farmi curare, mi dicono: “Ma Lei si chiama Martine”, e bla bla bla…

 

FAGIOLI – Com’è iniziato il gioco di seduzione? Lei aveva 25 anni!

DUPUIS – E 25 anni di differenza… io ne avevo 25 quando l’ho incontrato. Ti dirò, avevo 25 anni perché ero andata a spasso per il mondo, in barca, mentre gli altri avevano 21 anni… io ne avevo 4 di più, ero abbronzata e arrivavo dopo il ’68. Ció significa che c’era una grande confusione nelle Università, soprattutto a Nanterre. C’era già stato il movimento di Maggio con… come si chiama… Cohn-Bendit, ma era [ancora] un gran casino: il professore stava là con gli studenti seduti ovunque, tutti che urlavano, fumavano, non sapevo di fronte a cosa mi sarei trovata. E Jean che parlava… aveva l’aria molto distesa, non aveva problemi di esami perché dava buone note a tutti.

FAGIOLI – Una specie di 18 politico, come in Italia. In diversi commenti sull’Italia, rintracciabili per esempio in “Cool Memories” e in altri saggi, Baudrillard sembra subire una fascinazione particolare per il nostro Paese, per i suoi abitanti, i suoi politici, le sue contraddizioni, i suoi eccessi, le sue dissimulazioni: una fascinazione simile a quella che aveva per le donne e per il femminile. Che idea aveva dell’Italia? Cosa pensava degli italiani?

DUPUIS – Beh, li adorava. Mi poni domande sull’Italia e sulle donne, ma quando ho incontrato Jean avevo 25 anni, lui era più vecchio e all’epoca aveva già avuto una moglie e dei figli. Si erano poi separati e aveva detto che mai mai e poi mai avrebbe vissuto di nuovo con una donna… mai mai mai… E quindi ci ho messo vent’anni a sedurre Jean, ad avvicinarmi fino alla fine. D’altra parte, nel periodo in cui l’ho conosciuto visitava molto l’Italia, soprattutto Urbino.

FAGIOLI – È lei che lo ha sedotto o lui?

DUPUIS – Fu reciproco, ma tutto questo per dire che non facevo parte del gruppo di Urbino, era negli anni ’75-77, e là si è dovuto divertire molto con tutte quelle italiane… Ci sono delle foto che mi lasciano pensare che si sia molto divertito, che ne abbia ben approfittato.

FAGIOLI – Come definirebbe la voce di Baudrillard?

 

DUPUIS – No, no! Sei tu che farai il lavoro… sei tu che dovrai ascoltarla e dunque definirla. Io ne gioisco, tutto qua. Aspetta, avevo là [sullo scaffale] anche un piccolo video. Quando sono troppo triste, mi metto a guardare un piccolo video di Jean [disponibile all’indirizzo: https://youtu.be/msLZeiUzltU%5D. Nel video c’è tuttavia un po’ di eco. Jean ha una maniera dolce di pronuciare le parole, di mettere dolcemente le parole insieme l’una con l’altra».

FAGIOLI – Ha una voce dolce, e le mani sono piccole.

 

DUPUIS – Delle mani da contadino, sono delle mani di origine contadina. Dicevo: un modo di accostare le parole in modo del tutto dolce ma, allo stesso tempo, senza traccia di esitazione. Si trattava di quella parola, non di un’altra, e lo pronunciava con dolcezza, non lo imponeva a nessuno. Se gli si poneva una questione e poi qualcuno lo interrompeva, non aveva interesse per lui, non imponeva la sua parola, capisci cosa intendo?

FAGIOLI – Era sempre tranquillo, non aveva mai reazioni violente?

DUPUIS – Aveva un’incredibile padronanza di sé… eccetto, ah, eccetto in macchina… amava guidare, era bello, pieno di donne, anche quando l’ho conosciuto amava le macchine, adorava la velocità. Allora, quando c’era un imbecille [che lo rallentava] vedevo un [altro] essere accanto a me, come un demone, che usciva dalla testa di Jean. Non puoi immaginare, era qualcosa di incredibile, spaventoso. Si trattava di un cambiamento totale di personalità. A parte questo, quando c’era un imbecille che gli poneva una domanda totalmente imbecille, in una conferenza, a cena… altrimenti mai.

 

FAGIOLI – Quindi anche Baudrillard non avrebbe superato il test di resilienza in auto. Perché in Italia le persone si trasformano completamente in delle bestie.

 

DUPUIS – Ma era spaventoso, tutti avevano paura tanto andava veloce. Ed io avevo trovato la soluzione: bere e mettermi sul sedile posteriore. Non c’era che quella soluzione tanto avevo paura, e un giorno [gli] dissi: «non posso continuare a bere così, non è possibile». Mi ha risposto: «Va bene, adesso guidi tu». Ma era anche peggio, perché guidavo come una femminuccia e mi diceva: «Non senti il motore che soffre?». Io non sentivo proprio nulla.

FAGIOLI – Le marce, la frizione… in effetti la macchina è un’estensione del corpo.

DUPUIS – Certo, è del tutto chiaro, ma io non sentivo proprio nulla, era vero che fossi completamente insensibile!

 

 

 

FAGIOLI – A proposito di sensazioni, Baudrillard è l’unico pensatore a cui riesco ad associare una musica, una specie di suono-Baudrillard che riflette la fine dell’umanità, il deserto del senso, e un ‘oltre’ impensabile: “Collapse”, dei Boards of Canada, e “Icefire” di Pat Metheney. Che musica ascoltava Jean?

 

DUPUIS – Che musica ascoltava? Amava molto la musica barocca, Monteverdi, gli anni galanti… capisci, altrimenti ascoltava anche la banana… i Velvet Underground.

 

FAGIOLI – Ma lavorava ascoltando musica?

 

DUPUIS – Mai, mai, mai!

 

FAGIOLI – Silenzio assoluto!

 

DUPUIS – D’altronde non credo che facesse due cose allo stesso tempo. Jean, quando scriveva, quando lavorava, aveva una specie di oggetto che non ho ritrovato, conosci quelle cose kitsch degli anni ’70 con la sabbia, l’olio, quella specie di quadri che giri. Ecco, poteva guardarlo per ore.

 

FAGIOLI – Per pensare?

DUPUIS – E poi batteva intensamente a macchina, sulla sua vecchia macchina da scrivere, mai al computer.

FAGIOLI – E aveva degli orari fissi per lavorare? Com’era organizzata la sua giornata lavorativa e come interpretava la “professione” di pensatore?

DUPUIS – Prima di tutto non era così che funzionava [come con una ‘professione’, N.d.C.]. Aveva una piccola vanità, credo: non amava che si vedesse lo sforzo nelle cose che faceva, per lui era volgare mostrare lo sforzo. Quindi non lo vedevo lavorare quasi mai… e gli dicevo: «Andiamo a fare un giro?» o «E se andassimo due giorni ad Anversa?». Mai mi ha detto: «No, devo lavorare, devo finire una cosa». Bisogna dire che anch’io lavoravo molto, e [così] lui restava tranquillo durante la giornata… Questo significa una vita estremamente semplice! A parte i viaggi, non vedevamo molte persone. Jean era attento a sfuggire all’entertainment. E questo lo pagava a caro prezzo, perché quando ti trovi in un paese [straniero] e non vuoi incontrare i giornalisti, non vuoi andare a fare trasmissioni alla televisione, non vuoi abbandonarti alla mondanità…»

FAGIOLI – L’entertainment è il lavoro, il pensiero!

DUPUIS – E questo rappresentava per lui il godimento assoluto!

 

FAGIOLI – Un godimento?

 

DUPUIS – Certo, proprio godimento! Aveva trovato la sua armonia, era una persona molto armoniosa. Quando lo incontravi era molto ben disposto, non aveva mai un giudizio su qualcuno, mai ma proprio mai. E questo per delle ragioni molto semplici, e cioè che pensava che l’intelligenza e la stupidità potessero facilmente invertirsi, quindi non giudicava le persone. Metti tutto questo nel tuo personaggio, e poi metti un’altra cosa, che mi ha abbagliata, abbagliata dall’inizio alla fine… non aveva mai un doppio volto, non l’ho mai visto con due volti differenti con persone diverse, non era assolutamente ipocrita. Se incontrava il Presidente della Repubblica era esattamente lo stesso che parlava col portiere. È qualcosa di molto impressionante, perché continuo a vedere intellettuali andare in giro… se tu sapessi fino a che punto sono capaci di giocare quattro o cinque personaggi alla volta!

 

FAGIOLI – Ma coerentemente col suo pensiero non aveva bisogno di dissimularsi, era quello che era!

 

DUPUIS – Si ma, come dire… a forza di essere nelle sue cose… era divenuto la sua stessa verità, non aveva bisogno di andar a cercare una dottrina per esprimerla. Vedi, era tutto questo, ed è questo che faceva sì che fosse una persona estremamente affascinante.

FAGIOLI – Era romantico con lei?

DUPUIS – Ma proprio per nulla! Assolutamente no! […] Tirerò fuori delle frasi di Jean, per rispondere alla tua domanda. Ve n’è una che dice: «Quando si dice ‘ti amo’ è già il linguaggio che ci si mette ad amare, è la prima infedeltà!».

 

FAGIOLI – Molto sottile!

 

DUPUIS – Puoi ben capire che non era un uomo che ti stava a dire senza sosta: « ti amo, ti amo, ti amo… », no no no, nient’affatto!

 

Lo zen e l’arte della fotografia

 

FAGIOLI – Qual era la sua professione?

DUPUIS – Ero la direttrice artistica di un magazine, per la fotografia. Su internet trovi su di me, spesso, delle sciocchezze, ma alla fine, internet non è per me un canale di conoscenza, quindi non m’interessa.

FAGIOLI – Amo questa foto… Baudrillard parlava di violenza dell’immagine sulla realtà, ma anche di una sorta di vendetta della realtà sull’immagine, ovvero la violenza del senso che la realtà vuole attribuire all’immagine (senso politico, sociale, estetico). D’altra parte, le fotografie di Baudrillard rappresentano in qualche modo la fine dell’illusione dello specchio, immagini che tendono a cancellare il soggetto dalla rappresentazione, e allo stesso tempo vanno oltre la rappresentazione, sono senza rinvio… Che tipo di libertà offriva la fotografia a Baudrillard e che tipo di costrizione? Come si poneva rispetto al fatto di mettere “in mostra” le sue opere, lui che fu così critico con il sistema dell’arte contemporanea, e anche piuttosto attento a mantenere questa sua passione a un livello discreto e amatoriale?

 

DUPUIS – Troppe domande, te lo spiego con un aneddoto. Jean, siamo negli anni ’80, alla fine degli anni ’80, doveva tenere una conferenza in Giappone ed i giapponesi sono sempre usi offrire un piccolo regalo. Gli offrirono una piccola macchina fotografica, veramente piccola, di queste dimensioni. Jean ha così iniziato a divertircisi.

 

FAGIOLI – Non era una passione che aveva da sempre.

DUPUIS – Da solo non l’avrebbe mai fatto. Ci si è divertito. Jean si divertiva molto, veramente molto, non appena poteva: era una persona estremamente faceta, gli piaceva molto divertirsi. Era leggero: ti diceva delle cose, delle cose magnifiche ma te le diceva in modo leggero, come un monaco zen. Sai, era molto orientale, molto leggero, non prendersi sul serio…perché noi, in Europa, abbiamo una tradizione molto pensante, di volontà [di volontarismo]. Jean non era questo, non sentivi mai in lui il minimo sforzo.

FAGIOLI – Perché non vi sentivi la volontà, una volontà tesa…

 

DUPUIS – Dico questo perché molto spesso le persone che venivano a fargli visita gli dicevano: «il tuo pensiero è orientale», e Jean, che aveva una cultura vastissima, che aveva letto gli indiani, le Upanishad, che sapeva tutto del taoismo zen, diceva: «non vale la pena [di scomodare gli orientali]. Si deve poter arrivare a questa ironia – che è poi alla fine il suo dominio d’investigazione – con la propria cultura, non vale la pena di andare a cercare cose esotiche.

 

 

Après coup

FAGIOLI – Talvolta ho delle sensazioni, quando leggo i testi di Baudrillard. Leggere Baudrillard cambia la maniera di pensare e quindi di vivere il mondo. Alcune cose emergono nel loro significato solo dopo mesi, addirittura anni, Spesso le sue intuizioni si capiscono molto tempo dopo. Che tipo di influenza ha avuto su di te1, e quale influenza hai avuto tu su di lui?

 

DUPUIS – Vedi, quando lo leggi dieci anni dopo, ci sono ancora delle cose che escono fuori. Non lo leggi affatto nello stesso modo. Ho dei libri che lessi quando ero giovane e non è affatto la stessa cosa. Ecco quello che voglio dire: quando sto male, leggo un testo di Jean su qualsiasi argomento e mi sento meglio. Dico a me stessa: «di che parla?». Ma non è affatto quello di cui parla, è la forma del suo pensiero che s’imprime nel tuo cervello e che ti motiva.

FAGIOLI – È la sintassi, è la forma di una sensazione. In giornate tristi e pigre per me è una sorta di terapia, o un tonico!

DUPUIS – Esattamente! È una forma, che quando ne segui le tracce – perché questo è leggere un libro, è seguirne le tracce – ti raddrizza la colonna vertrebrale, e poi stai meglio.

 

FAGIOLI – E crea dipendenza. La cosa curiosa è che quando leggo il testo di un grande filosofo sistematico, come ad esempio Kant, mi sembra inzialmente di non capire nulla, ma una volta che ne afferro le premesse, tutto diventa relativamente scorrevole, e posso seguire con un certo ordine la complessità crescente; mentre quando leggo Jean Baudrillard, o ne rileggo qualcosa dopo una settimana, un anno o dieci, è come se il testo fosse mutato nella sua articolazione, nella sua profondità, nei suoi livelli, nella sua complessità. Ad esempio America, il mio preferito, l’ho letto molte volte, ognuna come fosse un testo diverso. Quanto tempo ha passato Baudrillard in America?

 

DUPUIS – Molto tempo, perché mentre doveva insegnare e io seguire i corsi a Nanterre, se ne andava in giro, a dare conferenze qua e là. Tu arrivavi in aula e trovavi scritto: «Il Prof. Baudrillard tornerà fra due mesi». Inoltre Jean, che era di estrazione molto modesta, in quel modo si esponeva; ha amato quel periodo, è stata l’esplosione.

 

FAGIOLI – [J.B.] ha detto che America è probabilmente la sua seconda miglior opera [dopo Lo scambio simbolico e la morte, N.d.C.].

 

DUPUIS – Se è così è perché non è puramente astratto, è la vita: Jean ci dà nel libro chiavi per vivere, per viaggiare, per vedere. Diciamo a noi stessi: se arrivo a comprendere tutto

questo, posso fare ogni cosa.

 

 

La lingua inesistente

DUPUIS – Jean era uno che era riuscito a sfuggire al potere durante tutta la sua vita. Faceva molta attenzione a quest’aspetto, ha sempre odiato gli uomini di potere. […] parlava, qualche volta, in tono sbarazzino, così, senza insistere, e io avevo l’impressione di esser di fronte a dei cristalli, non capivo nulla di quello che diceva, ma proprio nulla, eppure ero al centro, presso il Sacro Cuore di Gesù. Vedevo cristalli e questo piccolo paesano e mi dicevo: «non capisco nulla, ma è troppo bello». E non esce fuori che era malato?! Doveva partire per l’America e era malato. Ed io gli dico: «Senti Jean – era l’inizio dell’I-Ching – sei molto malato, ti faccio l’I-Ching», perché ero molto ferrata nel soggetto. Allora abbiamo cominciato, sono riuscita a ritagliarmi un piccolo spazio, ma anche così la cosa è andata un po’ per le lunghe. Era meravigliato dal suo potere di seduzione. A Montparnasse, i giovani mi dicevano nei caffè: «eccolo con una nuova ragazza». Aveva molto charme e seduceva molto le donne e non c’era da rimproverarglielo o da rovinargli la festa, e lui ne approfittava… a dire il vero… L’intelligenza di Jean si esercitava anche nell’intelligenza di coppia, capisci? Ad esempo non vi era mai, ma proprio mai, il minimo ricatto. Io provenivo da una madre molto autoritaria e possessiva, ma Jean mai, mai e poi mai poteva fare dei giochi di piccoli ricatti, né avrebbe risposto al ricatto… e questo fino alla fine. Alla fine, avrei dato tutto affinché prendesse qualcosa, volevo che mangiasse qualcosa e dicevo: «Jean, se non mangi mi butto dalla finestra» – «Ma prego, accomodati» diceva… era inamovibile. Era una bellissima persona, una bellissima persona.

 

FAGIOLI – Doveva partire per l’America ed era malato. Aveva contratto la malaria prima di partire?

 

DUPUIS – Eh sì, perché io… sono partita a fare delle immersioni subacquee in un arcipelago dell’Oceano Indiano, le isole Comore, e poi, nell’arco di trent’anni, ci sono andata spesso […]. Quindi… avevo fatto una sorta di Trattato di Tordesillas con Jean: «Tu hai il mondo, io ho le Comore», così quando ci veniva con me, perché ci veniva qualche volta, non era che «il marito di Marine». E allora…io che ci andavo spesso, e avevo bisogno che Jean fosse là con me perché avevo bisogno di evadere… avevo creato un caffè filosofico, le Cool Memories. Eccole, le Cool memories: vedi la clientela… e i taxi dell’isola. Avevo creato un Baudrillard’s Land. Jean… era un uomo… non è questione di esprimere la mia ammirazione, perché lo avrebbe odiato e poi non si trattava di una venerazione. Si trattava di una vera coppia, litigavamo molto e quando andavo a dormire dicevo a me stessa: «questo stronzo ha ragione»… beh, era cosi, ma alla fine tutto è andato in un modo ben preciso. Se volete sapere tutto, dopo l’11 Settembre, Jean aveva del sangue nelle urine. Gli dicevo: «Bisogna che ti faccia curare!». Era talmente eccitato per l’11 Settembre, talmente eccitato. Non avrebbe potuto impedirlo, chiaramente, ma vi aveva scorto la matrice di un cambiamento mondiale. E quindi [soltanto] dopo si fece curare, ma la cosa era peggiorata e il male si era velocemente diffuso al sistema nervoso, al sistema circolatorio, nel sangue. Jean si era fatto curare per farmi piacere. Quando andammo a fare le chemio, io avevo consultato tutti i migliori oncologi di Parigi, con dossier enormi, ecc. Quando [i medici] arrivavano nella stanza, trovavano Jean che diceva, come se niente fosse: «Ah bene, Marine è andata a telefonare, ritorna fra cinque minuti», come se il tutto non lo riguardasse. «Aspettate cinque minuti, ritornerà», e ricominciava a leggere. E [dovevi vedere] quei tizi, i grandi mandarini che ero riuscita a trovare con molte difficoltà!

FAGIOLI – Bisogna dire che per Baudrillard le cure mediche erano una forma di potere…

DUPUIS – Sì, odiava i medici. E c’è a riguardo anche un piccolo aneddoto : tutto è successo qui e un giorno mi dice che era veramente molto, troppo sofferente. Un giorno, visto che ero d’accordo col farmacista, col medico, con l’oncologo, con tutti… un giorno in cui Jean era veramente molto sofferente, mentre ascoltava musica, gli abbiamo somministrato della morfina. La notte stessa Jean si è messo a parlare una lingua inesistente. E all’indomani, raccontandogli l’accaduto, gli dissi: «Jean non mi far questo perché non potrei sopportare il fatto che tu diventi pazzo!». E mi ha risposto: «Come? Ho parlato una lingua inesistente? È geniale, avresti dovuto registrarmi!» Era eccitato, e si è rimesso a parlarne. Stava morendo, ma quello che gli interessava era «cosa è accaduto in questa storia?», «cos’era quella lingua inesistente?».

FAGIOLI – Ma questa lingua era inesistente perché era incomprensibile, o…?

 

DUPUIS – No, ti assicuro, era una lingua inesistente perché non si poteva dire che assomigliasse all’indiano o a non so cosa, non esisteva affatto. Era incredibile!

FAGIOLI – Era una lingua patafisica!

DUPUIS – Forse, forse… [ride].

 

 

 

 

Nel vuoto, la potenza del pensiero

DUPUIS – Dopo vi mostrerò il suo ufficio. Era pieno di libri, tutto quello che gli interessava, mentre quello che non gli interessava, semplicemente non esisteva. Quindi non era il caso [di riempire]… potevi portare anche una pigna o altro, ma in modo del tutto semplice… tutto si svuotava.

 

FAGIOLI – Se un filosofo tende a ridurre il mondo a propria immagine, e talvolta ne soffre come di una sorta di claustrofobia intellettuale, come riusciva Baudrillard a relativizzarsi come singolo? A relativizzare il potere del proprio pensiero?

 

DUPUIS – Vedi, riguardo alla potenza del pensiero… Non c’era bisogno di dire le cose. Il suo entourage capiva molto bene [anche senza che parlasse]. Jean non era qualcuno che desse ordini, era incredibilmente dolce e bendisposto, calmo, non andava mai in collera e non era mai arrabbiato – ma la potenza del suo pensiero faceva in modo che tu non avessi voglia di distoglierti da quel pensiero per ritornare a piccole questioni ordinarie.

FAGIOLI – Capisco… [un silenzio che funzionava] come un’emanazione del suo pensiero.

DUPUIS – L’emanazione di un pensiero potente. Questo fenomeno andava molto lontano, perché [da] quando si è ammalato, l’agonia è durata quasi quattro anni – tra l’inizio e la fine della malattia sono passati quattro anni… come sai, accade nel caso del cancro. Jean non ha mai avuto bisogno di dire a chicchessia che voleva morire qui, affatto, non ha detto mai nulla a nessuno, e tutti si sono messi al suo servizio. Io senza dubbio, ma per amore, gli altri non per amore: il farmacista, il dottore, l’oncologo, il professore… tutti!

 

FAGIOLI – Tutti qui a casa!

 

DUPUIS – Ognuno al suo posto, e nessuno ha discusso, nessuno ha detto: «ma dai, sarebbe più semplice portarlo all’ospedale!» No. Ha imposto le sue regole, così, come se niente fosse. Questo è incredibile! Questo significa la potenza del pensiero. Vedi, bisogna credere nella potenza del pensiero, e non val la pena di riempire: più tu riempi, più complichi il gioco.

 

FAGIOLI – Il gioco, ma anche il mestiere di pensare! Qual era il suo rituale quotidiano nell’esercizio del pensiero?

DUPUIS – Come dicevo, l’idea non era di riempire, con delle teiere o altre cose: Jean amava il vuoto, quindi non era un divieto di mettere oggetti, si trattava semplicemente del fatto che si trovava bene nel vuoto, non solamente il vuoto di oggetti, ma anche il vuoto delle persone. Ti racconto un piccolo rituale: tutte le mattine scendeva… no, aspetta, te lo racconto in modo diverso. Un giorno, Jean era già morto da tre anni e qualcuno mi ferma per la strada e mi dice: «Ho un regalo per lei». Io rispondo: «Grazie, lo accetto volentieri… è carino da parte sua». E questo signore mi dice che è una fotografia e mi dà una fotografia: posso mostrarvela? Non riesco a trovare il grande formato della fotografia ma la misi su carta. Allora, vi spiego di cosa si trattava: tutte le mattine Jean scendeva, prendeva la sua posta, andava là, al cestino dell’immondizia, leggeva la posta e la gettava, paf… Se c’era un assegno, se lo metteva in tasca. Non conservava alcun documento, i documenti dell’assicurazione sanitaria, i documenti dell’affitto, i documenti dell’assicurazione, gettava tutto.

FAGIOLI – Posso immaginare quest’azione: è così che il mondo viene gettato nell’immondizia.

DUPUIS – Quel fotografo che ha scattato la foto abitava proprio davanti al cestino dell’immondizia e tutti i giorni vedeva quel tizio che arrivava con la sua posta e avrà detto fra sé e sé: ma chi è quello?… fino al giorno in cui chiese ad un amico: «ma quell’uomo che getta ogni giorno la posta nel secchio dell’immondizia abita in questo quartiere?». L’amico gli risponde: «si! È Jean Baudrillard». Allora a partire da quel momento ha fatto molte foto e me le ha offerte, sebbene Jean fosse morto tre anni prima. Una cosa incredibile! E c’è un’altra storiella simile: [la foto di me che] stavo aspettando Jean in un caffè e lui arriva, si china verso di me e mi dà un bacio… e io ricevo così la foto di un bacio di Jean tre anni dopo la sua morte… Era una cosa incredibile! Avevo l’impressione che Jean m’inviasse un bacio dall’aldilà.

L’eredità di Baudrillard

DUPUIS – Jean mi ha lasciato una bella eredità. Non si tratta di denaro… è incredibile no? è piuttosto ciò che fa si che tu vai in Cina, incontri dei ragazzi di 20-25 anni e ti rendi conto di quello che è successo là: non sai come, non sai da dove [il suo pensiero] sia passato… Vale a dire che sono la sola persona che va in Cina non per fare soldi e ritorna… capisci quello che intendo? Vai ovunque e il pensiero emerge, sfuggendo completamente alla finanziarizzazione del mondo. Ed il pensiero è qualcosa di magnifico, è il nostro spirito, è con questo che si continua a crescere, è con questo che vi amerete, […] capisci, il pensiero è l’essenza stessa che ci muove e qualcosa che non perisce. Ecco perché l’eredità di Jean è incredibile. Ha lasciato dietro di sé gli strumenti per sopravvivergli.

 

FAGIOLI – In effetti, anch’io sono sotto la sua influenza.

DUPUIS – Posso capirlo, ed è così ovunque. Potrei farti leggere lo scritto di uno che descrive come Jean abbia cambiato la sua vita. Non conosco questo ragazzo. Ha scritto un libro eccellente su Jeff Koons. Leggo il libro e mi dico: «ma guarda! Lui ha letto Baudrillard». Quindi gli invio un piccolo messaggio che dice: «Ho veramente apprezzato il suo libro». E mi risponde che è professore d’arte a Lille: «Siamo una piccola banda e Baudrillard è la parola d’ordine, una cosa che ci aiuta veramente a vivere, a pensare». Bello no?! Bisogna rallegrarsene molto, ma va bene così, va bene così.

FAGIOLI – «Tomorrow is the first day of the rest of your life». Nella scena di apertura del film American Beauty [Usa 1999, scritto da Alan Ball e diretto da Sam Mendes, N.d.C.] il protagonista pronuncia questa frase, che compare anche nel primo capitolo di America, Vanishing Point. Ho sempre pensato che il film sia in parte ispirato allo scritto di Baudrillard, così popolare negli Stati Uniti, forse anche per il carattere così intrisecamente cinematico del suo pensiero sull’America.

DUPUIS – Sì. Ma è qualcuno che l’ha fatto senza dirglielo, perché Jean non ha mai avuto contatti con quelle persone, che in ogni modo avevano potuto leggere Jean Baudrillard. Quello che è incredibile è che oggi non c’è più pensiero… Io sono molto tranquilla a riguardo. Jean non era per nulla sicuro del fatto che l’intelligenza potesse restare un attributo dell’umanità2. E bisogna dire che questo… certo, non lo si può misurare nel lasso di tempo di una vita… ma non ne era affatto sicuro. Pensava che potesse rinchiudersi su se stessa, che ci si potesse tecnicizzare a morte e avere inventato, come diceva, il mezzo della nostra estinzione. Ma se, malgrado tutto, l’intelligenza si sviluppa cammin facendo, si riparlerà di Baudrillard – ma tutto questo non è grave. Jean non ha mai voluto discepoli, non ha affatto preparato la sua successione, la sua posterità… mai e poi mai. Per far questo, avrebbe dovuto esser convinto di essere in possesso di una verità e che si dovesse assolutamente proteggerla. No, non era proprio tipico di Jean. Aveva un modo di metabolizzare il reale, di insegnarci a metabolizzare quello che ci succede… si trattava piuttosto di una postura mentale. Vedi, è qualcosa del genere, anche se usava delle parole bellissime, uno stile eccellente, come un artista, ma non si tratta di una dottrina con una verità stabilita.

FAGIOLI – Si tratta piuttosto di un artista del pensiero. In questo senso, verrebbe da dire che Baudrillard stava alla filosofia come Carmelo Bene al teatro.

DUPUIS – Guarda Tommaso, non sei venuto per niente. Per la morte di Jean, ho inviato questa piccola foto per comunicare il [il giorno e il luogo del] funerale e tutto il resto, sai, c’è bisogno di un invito e ho scelto questa foto perché pensavo che quel momento fosse la nascita [di tutto], e che fosse giusto inviare l’immagine di un ombelico anche per la morte. Mi capisci? Perché questo chiudeva un cerchio e ho messo questo sul retro. Ed ecco, è come se tu fossi invitato al funerale di Jean.

 

 

Il Ribelle, il Guerriero, il Saggio

Ribelli 5 stelle contro saggi PD!

https://not.neroeditions.com/ribelli-5-stelle-saggi-pd/

Fabrizio Luisi, sceneggiatore per il web, la televisione e il cinema.

 

Interessante articolo che mette a confronto le ragioni per le quali la comunicazione politica delle due forze al governo, M5S e Lega, è risultata vincente rispetto a quelle del PD e della sinistra in generale, che in materia si sono rivelate scarsamente incisive o subalterne.

La comunicazione politica è anzitutto “storytelling”,  scontro di storie, ossia una vera e propria guerra per l’egemonia degli archetipi: il Ribelle (M5S e Sinistra radicale), l’Uomo Comune (M5S), il Guerriero o Soldato  (Salvini), il Saggio (PD), il Mago (Renzi), il Guaritore (Merkel), il Sovrano (Berlusconi). Si potrebbe aggiungerne altri, come ad esempio il Giudice (LeU), il Rivoluzionario (Potere al Popolo), il Seduttore, il Padre, la Madre, l’Amazzone, etc. L’archetipo si traduce in una narrazione attraverso una voce singolare, unica, una leadership: una voce per una storia, un solo Guerriero, un solo Saggio, un solo Sovrano, etc.

 

 

Gli archetipi attualmente vincenti al Governo sono un mix del Ribelle e dell’Uomo comune per quanto riguarda il M5S, e del Guerriero per la Lega. Mentre la storia del M5S sembra giunta al culmine, quella della Lega, del “Guerriero” sembra appena iniziata e in ascesa. Il ribellismo dell’Uomo Comune “trova compimento nella rimozione dello status quo. Arrivato al governo, il Ribelle ha compiuto il suo arco narrativo. La sua storia è finita. Al contrario, l’archetipo della Lega – il Guerriero – è ancora al primo atto: l’Invasore alle Porte, la Richiesta d’Aiuto, l’Investitura da parte della Comunità. Adesso inizia la guerra. La storia della Lega è appena iniziata.”.

Nonostante i successi apparentemente repentini, una narrazione richiede tempo per affermarsi. Soltanto dopo una lunga contesa con Fratelli d’Italia e Casapound Salvini e la sua Lega hanno potuto ottenere l’egemonia narrativa sull’archetipo del Guerriero, grazie all’intensità e alla coerenza con cui l’ha incarnato. Fratelli d’Italia ha creato una sua figura di amazzone ma anche madre (la Meloni), e le due cose non si combinano bene insieme; CasaPound è stata costretta a darsi un’apparenza di rispettabilità, meno bellicosa, per farsi accettare dal mondo degli adulti.

Per quanto riguarda il PD post-Renzi l’autore non può non rilevare anzitutto un’incredibile incompetenza comunicativa, e anche un arretramento rispetto alla storia , alle grandi narrazioni della sinistra, in cui si fondevano “strategia e tattica, visione su lungo termine e soddisfazione dei bisogni primari delle persone… In sintesi quella capacità di parlare alla pancia, al cuore, e alla testa della popolazione, attribuendo pari dignità a queste differenti esigenze”. In mancanza di una narrazione coerente la comunicazione PD è diventata puramente reattiva, e si è risolta in invettive contro il “populismo”, in difesa delle “istituzioni”, percepita come difesa dello statu quo, o della “competenza” (in senso altezzoso).

Fino alla crisi economica apertasi nel 2008 il PD,  il centro-sinistra in generale,  ha basato la sua narrazione sull’archetipo del Saggio (competenza, serietà, affidabilità, responsabilità), caratteristica della Prima Repubblica e in parte della Seconda (Fanfani, Moro, Ciampi, Prodi, Monti..).  La figura del Saggio, dominante nella narrazione europea post-bellica, è comunque entrata in crisi da molto tempo, principalmente a causa del crollo della reputazione degli esperti. In reazione a questo declino è stata proposta la narrazione del Mago, Renzi, in grado di riassumere e rivitalizzare le figure del Saggio e del Guaritore, grazie alla sua capacità di  “trasformare rapidamente la realtà, violando le leggi naturali “. Con la sconfitta al referendum la magia renziana della velocità è svanita, e con essa anche la voce narrativa del PD, che non ha più espresso alcun racconto, consentendo alle contro-narrazioni avversarie di straripare. Il ritorno al Saggio, Gentiloni, non è stato sufficiente, non ha avuto spazio narrativo, e la comunicazione del PD è diventata sterile e semplicemente reattiva, non più dominante. A meno di individuare una figura di Saggio o di Sovrano credibile, riconosciuta e ben raccontabile, il PD potrebbe far ricorso alla narrazione del Guaritore dei mali prodotti dall’attuale governo, in vista di un eventuale dopoguerra, che lascerà “ferite e macerie”. Ma, appunto, occorre che la guerra in corso faccia tutto il suo percorso.

Nel frattempo il PD ha perso per strada quel che era rimasto dell’anima sociale, e socialista, PCI o post-PCI.  E qui vengono i dolori della Sinistra nel suo insieme, da quella moderata a quella “radicale”, da quella ex PCI a quella rivoluzionaria. Secondo l’autore, la sinistra radicale dovrebbe incarnare l’archetipo del Ribelle, e forse, ancor più l’archetipo del Rivoluzionario (pancia, cuore, e testa), che però scompare sullo sfondo, come una generica Grande Narrazione che fu, e che è stata ormai archiviata. Non resta allora che narrare un Ribelle di tipo nuovo, che tiri fuori la Rabbia e non si limiti a enunciare un elenco di Valori, come fa LeU, che “invece si è presentata in giacca e cravatta, con il rispettabile e molto poco ribelle volto di Grasso” (il Giudice).

“E come abbiamo detto, il Ribelle ha bisogno di un nemico interno; ha bisogno di mettere in discussione il sistema dalle sue fondamenta; la sua voce è arrabbiata. Ma non c’è traccia di nemico nel racconto di LeU. Non c’è una visione del futuro. Non c’è rivolta. Non c’è rabbia… Il risultato è stato farsi superare a sinistra non solo dal M5S (per esempio su ecologismo e reddito di cittadinanza), ma anche dal Papa (che usa senza vergogna la parola capitalismo, al contrario della sinistra italiana). Il risultato è stato regalare alla destra peggiore la sana rabbia di tanti italiani…LeU non è esistita. Non ha espresso alcun racconto coerente con l’archetipo della sinistra, che è il Ribelle, e che, lo ripetiamo, prevede un Nemico e una radicale messa in discussione dello stato di cose presente. Se si continua a guardare ai “valori” e non al “racconto” non si comprende il comportamento dell’elettorato”.

Non a caso Potere al Popolo, quasi assente nella maggior parte d’Italia, ha ottenuto un risultato importante, offrendo una versione del Ribelle sganciata dalla narrazione dell’Uomo Comune. Questo spazio politico c’era, c’è, anche se nessuno, a parte Potere al Popolo, si è degnato di occuparlo per tempo.

“E la sinistra radicale è attrezzata per farlo, da sempre. Nonostante la loro eccezionale preparazione teorica, i bolscevichi hanno conquistato il consenso nel paese con due slogan elementari: «pace, pane, terra» e «tutto il potere ai soviet». Pancia, pancia, e ancora pancia. Mica andavano in giro citando i Grundrisse. Redistribuire ricchezza e potere alla popolazione dovrebbe essere il punto di partenza di ogni movimento di sinistra radicale…I valori e le istituzioni (antirazzismo, antifascismo, i diritti civili, i sindacati) ne sono solo un’emanazione. La sinistra italiana ha commesso l’errore di aggrapparsi ai valori e alle istituzioni, e non si è accorta che la terra che la sosteneva non era più sotto i suoi piedi, come un Willy il Coyote qualsiasi.”.

 

Silvia Milani, Universal Robots, Delos Digital, nov.2016

dagli albori delle prime civiltà all’epoca del GPS, gli androidi hanno sempre avuto un ruolo all’interno delle più diverse tradizioni culturali e hanno compiuto un emozionante cammino evolutivo con l’uomo.Docili feticci imbambolati o crudeli macchine di sterminio? Dotte entità fluttuanti o cataloghi antiquari del corpo umano?

“Quelli di Čapek non erano più i tempi dei meccanismi a orologeria, delle bambole perturbanti, dei servitori magici e delle anatre da salotto: mentre l’autore concepiva i suoi robot, l’umanità scivolava sulle rapide del progresso, trasportata dai sistemi automatici industriali, dall’elettricità, dall’aviazione, dalla radio e dal telefono. Funzionalità, efficienza, semplificazione e soprattutto velocità, plasmavano e, per alcuni, assoggettavano lo spirito di una nuova civiltà.”

In una recente conversazione un mio amico nerd mi ha illustrato la sua curiosa idea di voler realizzare un’immagine 3D della sua “ragazza perfetta”, una combinazione virtuale di alcune caratteristiche a lui gradite di una ragazza vera di cui si è invaghito con le possibilità offerte da programmi di animazione o DAZ. Senza escludere una versione robotica o tramite stampante 3D, come quelle offerte da realdoll.com. Non so cosa ne verrà fuori, forse mi nasconderà tutto o quasi, ma non senza continuare a parlarmene enfaticamente.

Mi sono ricordato che Silvia Milani accenna a realdol.com nel suo saggio intitolato Universal Robots – La civiltà delle macchine, subito dopo aver parlato della mitica androide (o meglio, ginoide) Hadaly (dal romanzo Eva Futura di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, 1886) e del manichino Cynthia dei Magazzini Saks, divenuta poi, oltre che regina dei salotti newyorkesi,  anche conduttrice di una rubrica giornalistica e di un programma radiofonico e, nel 1938, attrice nel film Artists and models abroad.

Il termine androide, creatura artificiale dalle sembianze umane,  divenne popolare proprio con il romanzo di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, che racconta la storia della ginoide  Hadaly, progettata e costruita da Thomas Alva Edison (!) “allo scopo di dar vita a una nuova Eva, o meglio, a una seconda progenie di creature in grado di riscattare l’Eva decaduta e restituire così nuove speranze “scientifiche” all’umanità”. Il confronto uomo/androide  ci riporta non solo a Olimpia, la bambola meccanica dell’Uomo della sabbia di E.T.A. Hoffmann (1815), ma anche, inevitabilmente, alle più recenti ginoidi, (la Rachael di Blade Runner) fino alle partners ideali che oggi si possono acquistare sul sito realdoll.com, “scegliendo in un catalogo molto ricco il volto, il corpo, il tono dell’incarnato, la lunghezza delle unghie, il colore dei capelli, degli occhi, la carnosità della bocca, la conformazione dei genitali e altri dettagli anatomici personalizzati”. Create come oggetto sessuale,

finiscono spesso per ornare e accompagnare l’intera quotidianità del proprietario. Sembra infatti che proprio nel momento in cui l’immaginario si realizza iperrealisticamente nel corpo della bambola, esso perda la sua carica dirompente, diventando un feticcio imbambolato della routine.”.

Su bambole perturbanti, Eve future, automi e robot dall’antichità ad oggi ci eravamo già confrontati a inizio decennio sui nostri rispettivi blogs di allora, Dead Channel Surfing (il mio) e alleedelisleadam (il suo). Fra il 2008 e il 2010 avevo pubblicato una serie di post dedicati alla robotica e all’automatizzazione in generale, con le sue vaste implicazioni di tipo sociale, economico, storico, psicologico, etico, nell’ambito più generale dell’immaginario fantascientifico, in particolare quello cyberpunk e steampunk. Fra vecchi e nuovi films (The Day The Earth Stood Still, Die Puppe, The Mechanical Man, etc.), cortometraggi, articoli sugli automata di P. Jaquet-Droz  o sui robot nell’Era Vittoriana, strani oggetti steampunk, comics ed eventi, figuravano appunto anche alcuni contributi di Silvia Milani, studiosa attentissima del fenomeno, laureata in Lettere con una tesi sulla genesi del robot nell’immaginario del Futurismo. Fra questi ricordo un paio di post su R.U.R (Rossum’s Universal Robots) di Karel Čapek (1921)., uno su futuro e letteratura e un quarto su Il robot nell’uomo.

Già in questi post era evidente l’interesse dell’autrice per i continui rimandi  storici e culturali. Così i robots di Čapek vengono confrontati con la leggenda del Golem, l’Introduzione alla cibernetica di Norbert Wiener, le riflessioni di Jean Baudrillard sui simulacri e sul virtuale. col Progetto Genoma Umano di Craig Venter, ma anche con la Storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo (1860), in cui lo scrittore parla della Creazione e moltiplicazione degli omuncoli (2066- 2140). Senza dimenticare gli automi di Jacquet-Droz, il taoismo o i pensieri di Blaise Pascal.

 

In questo suo saggio intitolato giustamente Universal Robots, l’autrice si muove agilmente fra automata e androidi, robot e replicanti, fra passato e futuro, fra immaginario e realtà, riassumendone i passaggi fondamentali con un brioso stile narrativo che sollecita la curiosità del lettore ad andare avanti e a approfondire ulteriormente l’argomento, anche dal punto di vista filosofico.

 

L’Introduzione in questo senso è già fatale, perchè ci conduce con mano sapiente dai primi automata di Alessandria d’Egitto (IV e III sec a.C.) agli orologiai del Sei-Settecento, dall’oca di Vaucanson agli studi sul corpo e sull’anatomia (Vesalio, Susini) fino a Galvani, Volta, lo steam man ottocentesco e, dulcis in fundo, le visioni futuristiche di Ippolito Nievo, del sociologo Mario Morasso (La nuova arma: la macchina, 1905), e “naturalmente” di Filippo Tommaso Marinetti con  il suo “universo meccanico di locomotive, aeroplani e automobili, destinato ad accrescersi al ritmo delle industrie e dei cantieri”.

Alcuni decenni dopo, nel 1950,  il teorico della cibernetica Norbert Wiener pubblicò la sua Introduzione alla cibernetica sottotitolata  L’uso umano degli esseri umani. Il passaggio dal futuristico Regno della Divina Luce Elettrica (Marinetti) ai rischi concreti dell’abitudine all’automatismo mette naturalmente i brividi. Di mezzo ci sono evidentemente due guerre mondiali. All’ottimismo fino ad allora rivolto ad automi e civiltà delle macchine subentrano le prime riflessioni critiche, e dal perturbante analizzato da Freud si passa ai replicanti di Blade Runner, il film diretto da Ridley Scott (1982) ispirato al racconto di Philip Dick “Il cacciatore di androidi”. Nel frattempo l’ingegnere cibernetico giapponese Masahiro Mori aveva pubblicato i risultati delle sue analisi sperimentali sulla percezione umana di robot e androidi, in uno studio intitolato La valle perturbante (in inglese The Uncanny Valley, 1970).

Il capitolo  su “La macchina umana: dall’omuncolo al robot”  ci introduce all’odierna tematica della robo-etica,  ovvero delle “implicazioni morali di un possibile uso criminoso delle macchine intelligenti” (robot, droni, armi “autonome”). Lo spunto iniziale è la Storia filosofica dei secoli futuri fino all’anno 2222 di Ippolito Nievo. Gli omuncoli, “detti anche uomini di seconda mano, o esseri ausiliari”, costituiscono il precedente ottocentesco dei robot di R.U.R.  Secondo Nievo verranno costruiti a Liverpool nel 2060 da due costruttori di macchine per cucire. Il famulus (“servitore”) sarà un calzolaio, un automa che riproduce non soltanto i movimenti meccanici del corpo, ma anche la capacità di sentire “la differenza e il valore degli ostacoli in cui si abbattono”, ottimizzato per essere il più possibile produttivo. I due soci finiscono per litigare, e l’uno fa uccidere l’altro da un altro omuncolo creato allo scopo. Come si regoleranno i giudici su questo delitto? Il mandante dell’omicidio verrà condannato a morte. Ma cosa fare dell’artificial man che è di fatto l’assassino, seppure “sprovvisto della capacità di comprendere”? La giuria di Nievo non ha dubbi, e fa decapitare anche lui “come reo di materiale omicidio premeditato e consumato”.

Ma come comportarsi nel caso in cui un drone, oggi, ad esempio un drone fattorino di Amazon,  dovesse commettere un crimine? E nei confronti delle armi cosiddette autonome  (Lethal Autonomous Weapon Systems)?  Il dibattito sulla robo-etica investe anche l’ONU, che dovrebbe stilare una lista dei dispositivi da bandire o limitare in caso di conflitti. Sono preferibili droni che vanno in guerra senza controllo umano, o droni pilotati  in remoto?

Queste e altre questioni che investono diverse discipline (informatica, sociologia, diritto, teologia etc.) riguardano inoltre non soltanto gli eventi bellici ma sempre più “diversi ambiti delle relazioni sociali, della politica tra Stati, dell’ambiente, dell’economia e della giustizia, sempre più vicini all’uomo”, a causa dell’impatto di congegni “sempre più invasivi e sostitutivi”. Quali saranno le ricadute “sociali” delle sperimentazioni belliche?

Questo sempre più è stato anticipato, ci ricorda l’autrice, in film come Crash o Tetsuo, che ricordano l’elettricità sessuale di Marinetti:

“In queste rappresentazioni i protagonisti rispondono unicamente al richiamo d’una corrente vitale che comunica con il mondo gelido delle forze e dei meccanismi; quel mondo che Gregory Bateson (1903-1980) ha definito, con un prestito da Jung e lo gnosticismo, il Pleroma.”

A questo livello non è facile stabilire le differenze fra androidi ed esseri umani (immaginari e reali). Bisognerebbe affidarsi, secondo Pascal, ai sentimenti, che però sono falsificabili. Al contrario, l’amore fra Primus ed Elena, i robot amanti di RUR, potrebbe essere considerato autentico. Di conseguenza “la geografia ufficiale, in un prossimo futuro, avrà il dovere di segnalare l’esistenza di una sempre più estesa Valle perturbante tra il mondo del Pleroma e quello della Creatura”.

 

 

Nella Terza e conclusiva parte del saggio, la Milani rivisita dunque alcuni dei fondamenti, sia classici che meno noti, di questa “geografia ufficiale”, alcuni dei quali abbiamo avuto modo di conoscere in precedenza: i robot di Čapek, naturalmente, l’estetica della velocità futurista, Mario Morasso e il suo wattman (La nuova arma: la macchina, 1905) e le teorie cibernetiche di Norbert Wiener e Masahiro Mori. Lasciamo qui al lettore la curiosità e la responsabilità di approfondire per proprio conto questa nuova geografia del futuro, non senza un messaggio di speranza e di amore   🙂

 

 

A questo punto Alquist ha la prova certa che i due robot si amano. Spalanca la porta del laboratorio, ordina loro di uscire e di stare insieme per sempre. Si siede poi alla scrivania, fa cadere tutti i libri che ha di fronte e raccoglie da terra una Bibbia:

E Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò, li creò maschio e femmina. E Dio li benedisse e disse loro: Prolificate, moltiplicatevi e riempite il mondo…

Quando l’uomo si allontana dalla scena e il sipario sta per calare, in cima al cumulo di volumi sul pavimento troviamo aperto il libro di Mario Morasso. Tra quelle righe che vibrano e sbuffano il gas di un motore a scoppio, leggiamo:

E non ci sembrerà più impossibile che in un avvenire lontanissimo sia sparsa per il mondo una specie vivente, nuovissima e chimerica, una folla strana di individui metallici, di automi invulnerabili, mostruosi e docili, genitura vera dell’uomo e forse sua erede e continuatrice sul nostro pianeta assiderato. (Mario Morasso, op.cit.)

 

Amen.

Silvia Milani, laureata in Lettere con una tesi sulla genesi del robot nell’immaginario del Futurismo, insegna lettere e si occupa da freelance di editing, scrittura creativa e editoria. Ha curato numerosi contenuti per la sezione “letteratura italiana” di Oilproject, sito di e-learning. Vive e lavora a Pesaro

 

Iperturismo cafonal & Effetto Beaubourg

Gallipoli

 

Iperturismo cafonal & Effetto Beaubourg

 

L’estate del 2017 verrà ricordata non solo come una delle più calde degli ultimi decenni, ma anche come quella dell’emergenza di frizioni connesse all’invadenza del turismo di massa, agevolato dalle tariffe low cost di viaggi, affitti e prenotazioni on line. Mi vengono in mente Gallipoli (LE), Dubrovnik (dov’è stato introdotto il numero chiuso), Barcellona (con la protesta degli abitanti), ma anche spiagge, porti, per esempio in Sardegna, senza dimenticare la Fontana di Trevi a Roma o le navi da crociera a Venezia. Ai già notevoli problemi di affluenza, traffico, controllo, sicurezza, sanità pubblica (che poco interessano naturalmente alle compagnie aeree e agli affittuari) si aggiunga il fatto che le località oggetto di questo iperturismo di massa diventano anche obiettivo privilegiato dei terroristi. Ma anche senza terroristi, occorre aggiungere ormai la problematicità di gestione di movide e manifestazioni di massa in genere: non dimentichiamo quello che è successo a Torino in piazza Statuto , dove si è sfiorata la strage per panico derivante da motivi probabilmente molto futili, per un fenomeno collettivo di autosuggestione. Peraltro le stesse considerazioni erano già state fatte in occasione dell’attentato al Bataclan di Parigini: Libération infatti intitolava un suo articolo “Génération Bataclan : la jeunesse qui trinque –  En s’attaquant aux lieux festifs de Paris et Saint-Denis, les terroristes ont ciblé le mode de vie hédoniste et urbain d’une génération déjà marquée par «Charlie». ». 

Tralascio qui quel che le singole amministrazioni faranno o non faranno per arginare il problema, e ricondurre le mandrie a più miti consigli. Forse introducendo il numero chiuso da una parte, le mandrie si trasferiranno da un’altra, dove gli affittuari saranno ben contenti di ehm, fornire loro un recinto o una movida ancora più stracciona. Forse qualcuno farà ricorso al TAR o all’ONU o al Papa per violazione del principio umanitario sacrosanto di pascolare, pisciare, scacazzare e scopare ovunque, non lo so. Jean Baudrillard ci aveva visto giusto già nel 1977, quando scrisse un suo saggio sul Beaubourg, visto come anticipazione  degli attuali fenomeni degenerativi (consiglio di leggerlo per intero, ovviamente, e senza pregiudizi moralistici) :

 

L’EFFETTO BEAUBOURG

Jean Baudrillard, 1977

 

Animazione. Rianimazione.

Implosione irreversibile in profondità.

L’unico contenuto di Beaubourg è la massa stessa, che l’edificio tratta come un convertitore, come una camera oscura o in termini di input/output…Non è mai stato così chiaro che il contenuto – qui la cultura, altrove l’informazione o la merce – è solo il supporto fantasma di quanto viene compiuto dal medium stesso, la cui funzione è sempre quella di indurre una massa, di produrre un flusso umano e mentale omogeneo.

Ipermercato della cultura,  già il modello di qualsiasi forma futura di socializzazione controllata: ritotalizzazione in uno spazio-tempo omogeneo di tutte le funzioni disperse del corpo e della vita sociale (lavoro, tempo libero, media, cultura), ritrascrizione di tutti i flussi contraddittori in termini di circuiti integrati…

Qui si elabora la massa critica, oltre la quale la merce diviene ipermerce e la cultura ipercultura…una specie di universo segnaletico totale, o di circuito integrato, transito incessante di scelte, letture, referenti, marchi, decodifiche…

Dovunque nel “mondo civile” la costruzione di stocks di oggetti ha comportato il processo complementare degli stocks di uomini: la coda, l’attesa, l’imbottigliamento, la concentrazione, il campo di concentramento. Questa è la “produzione di massa”, non nel senso di una produzione massiccia o ad uso delle masse, ma la produzione della massa. La massa come prodotto finale di ogni socialità, che pone fine di colpo alla socialità; giacchè questa massa, di cui ci si vuol far credere che è il sociale, è al contrario il luogo dell’implosione del sociale.

Ma se gli stocks di oggetti implicano lo stoccaggio degli uomini, la violenza latente nello stock di oggetti implica la violenza inversa degli uomini. Qualunque stock è violento, e c’è una violenza specifica anche in qualòunque massa umana, poichè implode – violenza propria alla sua gravitazione, al suo addensarsi intorno al suo punto (foyer) d’inerzia…

Massa critica, massa implosiva…la massa calamitata dalla struttura diventa una variabile disrtuttiva della struttura stessa…Fate piegare Beaubourg” Nuova parola d’ordine rivoluzionaria: inutile incendiarlo, inutile contestarlo, andateci! E’ il modo migliore per distruggerlo. Il successo di Beaubourg non è più un mistero: le persone ci vanno per questo, si riversano su questo edificio, la cui fragilità respira già la catastrofe, con il solo scopo di farlo piegare…mirano espressamente, senza saperlo, a questo annientamento. L’irruzione è il solo atto che la massa possa compiere in quanto tale – massa proiettile che ribatte con il suo peso, cioè con il suo aspetto più stupido, più spoglio di senso, meno culturale, alla sfida di culturalità lanciata da Beaubourg…Alla dissuasione mentale la massa risponde con una dissuasione fisica diretta. E’ la sua propria sfida, la sua astuzia…ipersimulazione distruttiva.

La gente ha voglia di prendere tutto, di azzannare tutto, di abbuffarsi di tutto, di manipolare tutto. Vedere, decifrare, imparare non la emoziona. La sola emozione “massiccia” (di massa) è quella della manipolazione. “

 

 

 

 

 

 

Groove Armada friends, e nerds sfigati

“Tre ragazze, in vacanza in un’assolata località marina, la sera vanno in discoteca vestite del minimo sindacale. Una di loro, la più carina, protagonista del video, rimorchia un ragazzo, balla con lui, pomicia su un divanetto, poi se ne torna in albergo con le amiche senza curarsi minimamente, la stronza, di quel povero cristo che ha sedotto e abbandonato. Ha avuto un’ulteriore, pleonastica, dimostrazione della sua avvenenza e questo le basta; non pensa che il maschietto a cui ha permesso di carezzarle il pancino, quella sera dovrà ingaggiare una lunga e faticosa serpesmachìa per molcire e ricondurre alla ragione una specifica parte del suo corpo. Asservita ai dettami della moda e alle usanze del suo tempo, la femmina della specie ha messo in mostra le sue piume, ma al momento di “finalizzare il gioco”, come direbbe un commentatore sportivo, ha applicato la strategia della femmina ritrosa e, novella Cenerentola, ha lasciato in Nasso il suo principe azzurro, senza nemmeno il buon gusto di lasciargli una scarpina d’argento come souvenir.”
http://blog.canaro.net/2012/01/04/penetrazione/

 

a proposito di femmine ritrose e femmine sfacciate (Richard Dawkins, Il gene egoista), e di nerds sfigati

consiglio ovviamente di leggere l’intero articolo, un po’ lunghetto, sul blog di Canaro.net

Zardoz e le comunità del futuro

Zardoz, e le comunità del futuro

 

     Zardoz è un film di fantascienza del 1974 diretto da John_Boorman, con  Sean Connery nel ruolo del protagonista principale, Zed lo Sterminatore, e la splendida Charlotte Rampling nel ruolo di Consuela, la gran sacerdotessa della Casta degli Immortali.

 

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Nell’anno 2293 la Casta degli Immortali vive sigillata entro le barriere impenetrabili del Vortex, amministrato da un possente cervello elettronico, il Tabernacolo, contenuto in un misterioso cristallo dalle infinite capacità riflessive. Il Vortex è una dimensione separata dal mondo esterno, dove vivono i mortali, i “bruti”, schiavizzati e uccisi dagli Sterminatori a cavallo, anch’essi mortali, ma al servizio degli Immortali. Nonostante l’alto sviluppo scientifico e tecnologico, gli Immortali si annoiano: alcuni di loro diventano Apatici, altri Rinnegati, coloro che per qualche gesto di ribellione vengono condannati a un’eterna vecchiaia. Sul mondo esterno domina Zardoz, una enorme maschera di pietra volante, somigliante alla Sfinge de La macchina del tempo o a una scultura dell’isola di Pasqua. Ed è proprio attraverso questa gigantesca testa di pietra che lo Sterminatore Zed (Sean Connery) entra nel Vortex, dopo aver ucciso il “pilota” Arthur Frayn, seminandovi la mortalità attraverso la resurrezione dei desideri e delle passioni, finchè anche il Tabernacolo, il grande cristallo trasparente che presiede all’organizzazione del Vortex, viene distrutto. Riportati alla vita, mortale ma autentica, gli Immortali implorano la morte. Zed e Consuela si accoppiano, generando un figlio, invecchiando e morendo come tutti i mortali.

Zardoz si rifà in parte alla Macchina del tempo, per quanto riguarda la divisione sociale fra Immortali e Bruti (Eloi e Morlocks), anche se rovesciata di segno, e senza viaggio nel tempo (il futuro è già qui). Un altro riferimento è il romanzo Il meraviglioso mago di Oz di L.Frank Baum (da cui il titolo “the wiZARD of OZ”), in cui il Mago di Oz, nella Città di Smeraldo, si presenta a Dorothy, la protagonista, nelle sembianze di una Grande Testa. Ma il film nel suo insieme offre molteplici risvolti e significati già presenti in altri romanzi di fantascienza, come L’alba delle tenebre di Fritz Leiber o Sixth Column di Robert Heinlein e soprattutto, dal punto di vista filosofico, La città e le stelle di Arthur C.Clarke, in cui chiaramente lo scrittore britannico concepisce la Città, Diaspar, come una specie di Eden dove vivono gli Immortali, sotto il controllo costante di un onnipresente calcolatore e dei Banchi della Memoria. Ma la perfezione della sua ingegneria sociale la sta portando all’inerzia, alla decadenza e alla monotonia. Mentre questa vita apparentemente perfetta sta portando la città all’estinzione, si sviluppa un elemento perturbatore, nelle sembianze di Alvin e del Buffone di corte, previsto dagli stessi progettisti della città, grazie al quale la vita si rinnova e Diaspar crolla.

Ma, al di là dei numerosi e complessi riferimenti letterari e filosofici, Zardoz è soprattutto una geniale esperienza visiva e psichedelica, una sorta di Matrix dell’era psichedelica, così come psichedelico e tipicamente controculturale è il tema della rigenerazione vitale per poter progredire oltre la staticità di un sistema perfetto e conchiuso. Tema che nel 1995 verrà ripreso, con accenti diversi, dal romanzo post-cyberpunk di Neal Stephenson, The Diamond Age (L’Era del Diamante, Shake, 1997).

Movimento di rigenerazione che evidentemente coinvolge lo stesso regista e i suoi attori. Sembra infatti che Zardoz nasca all’intersezione di più destini personali in un periodo particolarmente prolifico della fantascienza colta, filosofica e new wave, a partire, non a caso, da alcuni film della Nouvelle Vague (vedi il cortometraggio sperimentale La jetée di Chris Marker, 1962, fonte d’ispirazione per L’esercito delle dodici scimmie di Terry Gilliam del 1995; Agente Lemmy Caution, missione Alphaville di Jean-Luc Godard, 1965; Fahrenheit 451 di Francois Truffaut, 1966). Fino ai film di Stanley Kubrick (Il dottor Stranamore, 1964; 2001: Odissea nello spazio,1968; Arancia meccanica, 1971) o di Andrej Tarkovskij (Solaris 1972; Stalker, 1979).

 

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John Boorman attraversa in quegli anni un periodo sfolgorante della sua carriera di regista, dopo Senza un attimo di tregua, Duello nel Pacifico, Leone l’ultimo, Un tranquillo week-end di paura, film holliwoodiani imperniati sulla socialità e sui comportamenti selvaggi dell’uomo “civile”,  e prima di L’esorcista II: l’eretico (1977), ed Excalibur, una delle riduzioni cinematografiche più riuscite del complesso di leggende di Re Artù e del Ciclo bretone (en passant faccio notare che anche K.W. Jeter, nel romanzo capostipite dello steampunk, La notte dei Morlock, pubblicato nel 1979, riprende in chiave fantascientifica le figure di Merlino, Re Artù e della spada Excalibur; la coincidenza è tanto più significativa in quanto sia Zardoz che il romanzo di Jeter, pur nella loro diversità, si riallacciano alla Macchina del tempo di H.G.Wells).

Nella carriera di Sean Connery, Zardoz si colloca immediatamente dopo la fine del ciclo di James Bond, ruolo da cui cercava di distaccarsi. Così, da agente segreto diventa lo Sterminatore, che riesce a seminare la morte fra gli Immortali grazie al suo sex appeal. E dopo 30 anni lo ritroviamo ancora nelle parti del vecchio cacciatore Allan Quatermain ne La leggenda degli uomini straordinari. Infine, la ventisettenne Charlotte Rampling, già indossatrice e modella, stava vivendo un momento particolarmente felice della sua carriera, da  La caduta degli dei di Luchino Visconti (1969) fino a Il portiere di notte di Liliana Cavani (1974), in ruoli piuttosto controversi  che ne sottolineano la bellezza ambigua.

In conclusione, Zardoz è una delle prime trasposizioni cinematografiche delle ansie legate all’emergere prepotente delle gated communities e delle Common Interest Developments, enclaves high tech per ricchi da cui escludere altri gruppi etnici o sociali anche mediante muri, vigilantes e dispositivi elettronici di sicurezza. La crescente privatizzazione degli spazi pubblici, a scapito dell’interesse generale, aveva già portato, nella California degli anni Settanta, alla privatizzazione del governo locale, quel che nella incipiente subcultura cyberpunk verranno rappresentate come vere e proprie città-stato, e che Neal Stephenson in Snow Crash (1992) definisce “burbclaves”. Né bisogna dimenticare, su un piano in cui fantasia e realtà si mischiano ancora più strettamente, le Experimental Prototype Community of Tomorrow (EPCOT), le comunità del futuro o Disney’s Dream Town progettate da Walt Disney già a metà anni Sessanta  come fusione di pianificazione urbana e ingegneria sociale, con una visione ottimistica e techno-friendly del futuro, enfaticamente basata su “educazione, tecnologia, salute e senso del luogo”: un “mondo più perfetto”, o “un nuovo modello di apartheid urbana”? Qui, come in Zardoz, il cristallo comincia a incrinarsi, e appare il lato oscuro della disgregazione urbana.

 

Hang music – Klaim e La vita di Adele

 

 

Tempo fa avevo commentato il film La vita di Adele di Abdellatif Kechiche (Palma d’Oro a Cannes 2013) sottolineando fra l’altro i riferimenti e le citazioni narrative (Marivaux), artistiche (Schiele, Klimt) e filosofiche (Sartre), (https://artobjects.wordpress.com/2015/03/01/la-vita-di-adele-exarchopoulos-a-kechiche-2013/), senza dimenticare il fumetto di Julie Maroh Il blu è un colore caldo (2010) cui la sceneggiatura si ispira, sia pure liberamente (https://artobjects.wordpress.com/2015/03/16/il-blu-e-un-colore-caldo-julie-maroh-adele-2/).

Colpevolmente ho trascurato la colonna sonora che non è semplicemente un sottofondo o un commento distratto alle scene, ma ne è parte integrante. Lungo tutto il film i protagonisti si ritrovano ad ascoltare, cantare, danzare e a urlare canzoni, dalle manifestazioni studentesche (On lâche rienHK & Les Saltimbanks) al Gay Pride (Epic – Sandro Silva & Quintino, e altre), dai locali gay alle feste (I Follow Rivers, Lykke Li, WhistleSporto Kantes, etc), fino alla scuola dove Adele insegna, nella scena in cui i bambini danzano in cerchio facendo finta di battere un tamburo (Bonbon – Marlène Ngaro (musica tradizionale della Guinea). Ci sono anche Mozart (al Museo), AC/DC, Johnny Halliday, Billy Joel, ABBA.. Un mix multiculturale, come del resto lo sono i protagonisti, in particolare gli studenti.

Nella scena in cui Adele incrocia per la prima volta Emma, Klaim, un musicista di strada, seduto per terra, batte uno strano strumento a forma di disco volante, che si chiama hang, e che produce questo strano suono, metallico dolce e ammaliante allo stesso tempo, che accompagna lo stato d’animo trasognato di Adele mentre attraversa la piazza cercando di non finire sotto qualche macchina! La stessa musica poi la ritroviamo alla fine del film, ma senza il musicista, quando Adele, vestita di blu, abbandona il vernissage della mostra di Emma, ormai definitivamente legata a Lise.

Lo hang è uno strumento che sembra sintonizzarsi in particolar modo coi luoghi di transito, i cosiddetti non luoghi urbani, strade, piazze, tunnel della metro. E’ uno strumento a percussione composto da due semisfere appiattite in acciaio temperato, ha un diametro di 53 cm e un’altezza di 24 cm, e viene suonato con il polso, il palmo e le dita delle mani. Il primo modello di hang venne messo a punto nel 2000 dai suoi ideatori, due artigiani di Berna (CH), Felix Rohner e Sabina Schärer, proprietari della PANArt, sulla base di una continua ricerca sulle percussioni etniche di mezzo mondo, fra cui in particolare quelli steel pan originari di Trinidad e Tobago. Essendo uno strumento prettamente artigianale, ne sono state realizzate poche centinaia di esemplari. Dal 2009 la PANArt ha cominciato a produrre un’evoluzione dello hang, il gubal, dalle sonorità più calde e profonde, che alcuni considerano complementari allo hang. Sfortunatamente di quest’ultimo è diventato molto difficile acquistarne qualche esemplare. Ci sono strumenti simili, sempre artigianali, ma con sonorità e materiali differenti, che vengono chiamati genericamente handpan : Bellart Bells (ES), Caisa (DE), Halo (USA), Spacedrum (FR), SpB (Russia), Disco Armonico (IT).

Per ulteriori approfondimenti, video, articoli, libri, etc, si può visitare il sito http://panart.ch/en/

 

Internet: Agorà permanente o Arena di gladiatori? (I giustizieri della rete 3)

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I servi sciocchi

Settimo. Come in tutti gli spettacoli in cui ci si eccita davanti ai bagni di sangue altrui, qualcuno ci guadagna. Si paga un biglietto d’ingresso, ci sono degli sponsor, in certi giorni l’incasso è consistente. Ma quanto consistente? Se si trattasse di un incasso favoloso? E chi ne beneficia? Di certo non i lapidati. Ma neanche il pubblico, né i volenterosi mister Hyde 2.0, che a quanto pare potrebbero essere i servi sciocchi di tutta la faccenda.” (Nicola Lagioia, http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2016/01/09/internet-insulti-social-network)

Quel che scaturisce dalla lettura de I giustizieri della rete di Jon Ronson, nonché dalle recensioni, è che il dilagare della violenza verbale nei social network non è più attribuibile ai tradizionali troll, a fanatici o pazzi, ma al contrario a persone “normali”, comuni, che sui social si trasformano, da soli o in gruppo, in un branco di assatanati Mr.Hyde 2.0, e trasformano quel che Internet avrebbe dovuto diventare secondo i cyber-utopisti, un’agorà permanente, in un’arena di gladiatori. Non parliamo più di trolls, ma di haters che si trasformano in Mr.Hyde, con le più svariate motivazioni, poco importa se basse o alte, ignobili o nobili, dettate dal’invidia o da una “giusta causa”. Ma in questo “spettacolo” chi fornisce i “contenuti” (i “servi sciocchi”) lo fa gratis, mentre chi fornisce i contenitori ci guadagna un sacco di soldi, e ha interesse a fomentare l’arena piuttosto che l’agorà. Osservare “i social network al loro peggio”, come scrive Lagioia, “è un po’ come per le risse televisive: più fanno schifo, più le guardi. Anche perché quell’oscuro scrutare certe volte è istruttivo. “.

E fra questi “servi sciocchi”, inutile illudersi o far finta di niente, può esserci chiunque: può esserci @dolcecandy, che stalkerizza ossessivamente un cantante famoso; può essere un noto direttore di una nota rivista che improvvisamente si scatena in una serie di tweet deliranti, ma può esserci lo stesso Lagioia, per caso o per malaugurata occasione, e naturalmente possiamo esserci noi stessi. E’ una violenza imprevedibile e trasversale, che non riguarda soltanto la rabbiosa hater che cerca di infangare l’immagine del divo o del vip, ma anche il professionista in carriera frustrato da una qualche aspettativa non realizzata, e perfino il sobrio scrittore che, in un momento di fragilità emotiva usa l’arma del sarcasmo contro la rappresentante di un’associazione culturale, rea di un errore irrisorio, scatenando, senza volerlo, una lapidazione virtuale.

Senza che la mia parte vigile se ne fosse resa conto – ma i bassi istinti dovevano averlo saputo – avevo cercato di dar vita a una lapidazione, e le mani altrui armate di pietre non si erano fatte attendere… la gente, intorno a me, sembrava attendere solo un’autorizzazione, un motivo, per quanto futile, per gettare merda su qualcuno che, fino a un attimo prima, era un perfetto sconosciuto…

Il tutto per un motivo irrisorio….L’agorà permanente che per i ciberutopisti sarebbe dovuta diventare internet, rischia di ridursi a un’arena di gladiatori…Fosse pure stata gestita l’associazione X in modo sciatto, meritava due ore di terrorismo virtuale come punizione? Soprattutto, la mia parte più rozza e primitiva aveva preferito dimenticare che dietro la lettera d’invito c’era una persona in carne e ossa, un essere umano che, esattamente come me, era capace di soffrire, di sentirsi ferito dall’altrui brutalità. A quel punto ho chiesto scusa per l’accaduto all’autrice della lettera e ho cancellato il post per evitare che arrivassero altri insulti.” (N. Lagioia, idem)

Ancora una volta la cyber-utopia si è trasformata in una distopia: che si tratti di rabbia cieca, frustrazione, volontà di distruzione o auto-distruzione, “mai, come in questi frangenti, gli anni novanta così carichi di promesse sembrano lontani.”.

 

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“I contenuti sono in grande maggioranza gratis o quasi. Chi mette a disposizione i contenitori, invece, fa soldi a palate “

E veniamo dunque alle considerazioni finali che Lagioia ricava dalle sue osservazioni.

Primo. A scatenare la violenza, la regressione primitiva, lo scadimento nel mister Hyde 2.0 è spesso una delle passioni umane che in rete (e non solo lì) sta avendo in questi anni maggior corso: il risentimento.

Secondo. Non importa che a provare risentimento sia l’anonima fan/hater della pop star da un milione di follower o il direttore della rivista patinata che si trasforma a tradimento in troll. Non è importante quanti soldi tu abbia, che ruolo svolga, quante persone lavorino sotto di te. In rete, se non stai attento a controllare i tuoi borborigmi emotivi, suonerai sempre un po’ troppo risentito. Sentirai di meritare di più, o che qualcuno ti sta rubando qualcosa.

Terzo. Questo risentimento di fondo può nascere da tante situazioni. L’assenza della fisicità consentita da internet (lo abbiamo detto) può farci provare il brivido di comportarci come bestie in balia degli istinti primari senza che nessuna goccia di sangue sia versata. Può essere il fatto che in un mercato zavorrato dalla crisi ognuno è spinto a credere di ricevere troppo poco rispetto agli sforzi che compie ogni giorno. E tuttavia può esserci anche altro. Per esempio, il fatto che qualcuno ti mette a disposizione un palcoscenico dove sei libero di esibirti ventiquattr’ore al giorno. Tu lo fai, ti esibisci, ricevi degli applausi. Lo spettacolo genera addirittura qualche spicciolo, che subito però svanisce. Non è nelle tue tasche, non in quelle del pubblico. Cos’è successo? Cominci a sentirti nervoso.

Quarto. Recentemente intervistato da Gianni Santoro per la Repubblica, il leader dei Radiohead Thom Yorke, alla domanda “da dove vengono oggi i maggiori profitti per un musicista?”, ha risposto stizzito:

Non lo so, ditemelo voi. Non ho la soluzione a questi problemi. So solo che si fanno soldi con il lavoro di molti artisti che non ne traggono alcun beneficio. Si continua a dire che è un’epoca in cui la musica è gratis, il cinema è gratis. Non è vero. I fornitori di servizi fanno soldi. Google. YouTube. Un sacco di soldi, facendo pesca a strascico, come nell’oceano, prendono tutto quello che c’è trascinando. ‘Ah, scusate, era roba vostra? Ora è nostra. No, no, scherziamo, è sempre vostra’. Se ne sono impossessati. È come quello che hanno fatto i nazisti durante la seconda guerra mondiale. Anzi, quello che facevano tutti durante la guerra, anche gli inglesi: rubare l’arte agli altri paesi. Che differenza c’è?

 

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Quinto. La rete è probabilmente il contesto in cui oggi si sconta la maggiore sproporzione economica tra chi mette a disposizione i contenitori e chi fornisce i contenuti. I contenuti sono in grande maggioranza gratis o quasi (si tratti dello sfogo astioso di @dolcecandy o dell’ultimo meraviglioso album di Sufjan Stevens). Chi mette a disposizione i contenitori fa invece soldi a palate. La musica è stata letteralmente fatta a pezzi da questo sistema di cose…Sta di fatto comunque che mentre il patrimonio di Mark Zuckerberg supera il prodotto interno lordo del Ghana, ai produttori di contenuti non va praticamente nulla, fossero anche il giovane Wittgenstein e il non più giovane Russell che rifondano su Facebook la filosofia del linguaggio.

Sesto. Quanto conta la “struttura” che rende possibile il nostro stare in rete rispetto alla nostra antropologia, alla temperatura emotiva dei nostri comportamenti? Mentre scriviamo un post, un tweet, o discutiamo in una chat, quanto è automaticamente influenzato il nostro umore (consapevolmente o meno) dalle regole profonde (meccanismi economici in primis) che determinano il funzionamento del contenitore che ci ospita? Al di là della nostra libertà di digitare un tweet, quanto è giusta e democratica, e libera, al livello di fondamenta, la struttura di internet?

Se la rete è destinata ad aumentare sempre più il suo potere, e cioè il suo peso economico e politico, non si dovrebbe auspicare nel ventunesimo secolo, per la galassia di internet, ciò che nel novecento è stato oggetto di lotta rispetto al mondo reale? Perché mai dovremmo accettare le regole della rete così come sono, se si tratta di regole anche ingiuste? In fondo non è questo che gli ultimi tre secoli di processi democratici ci hanno insegnato? Avere il diritto/dovere di spendersi per cambiare uno status quo che non ha alcuna intenzione di migliorarsi da sé…

Pur immaginandoli (i padroni della rete) mossi da buone intenzioni, ai loro interessi fanno più comodo un miliardo di utenti risentiti che si comportano come creature neandertaliane o un popolo di gente evoluta che usa internet in modo consapevole, intelligente e complesso? Le @dolcecandy e i mister Hyde 2.0 che si prendono a sputi e randellate nei corridoi virtuali non sono simili a quegli schiavi ai quali – per farli sentire liberi di qualcosa – era concessa ogni tanto la libertà di massacrarsi almeno tra di loro?

Settimo. D’accordo, abbiamo scherzato. Abbiamo letto troppe volte Philip Dick. Nulla di tutto questo è vero. E se una parte lo fosse? Cosa ci costa una scommessa pascaliana? Va bene, non è vero. Fingiamo che il web sia strutturalmente il migliore dei mondi possibili. Lo stesso: che senso può avere andarsene in giro nei panni di mister Hyde 2.0? Al costo delle sofferenze procurate al lapidato di turno, i lanciatori di pietre non traggono alcun vantaggio nel comportarsi in maniera dissennata.

Così la vera domanda è: tenendo conto dei privilegi offerti dal migliore dei mondi possibili – libertà d’espressione, gratuità, istantaneità, capacità di raggiungere persone lontane in un battito di ciglia – quali mondi non stiamo esplorando e quali possibilità ci stiamo precludendo comportandoci come i pazzi sanguinari che non aspiriamo a essere? Che cosa, in fin dei conti, stiamo perdendo nel non usare la rete per evolverci?

(tutte le citazioni da http://www.internazionale.it/opinione/nicola-lagioia/2016/01/09/internet-insulti-social-network)