Jean Baudrillard artista del pensiero – Conversazione con Marine Dupuis Baudrillard

Conversazione con Marine Dupuis Baudrillard*

a cura di Tommaso Fagioli ed Eleonora de Conciliis

«L’alterità è il nostro destino… e la volontà cospira con chi ci tocca in sorte»

Marine Dupuis Baudrillard

À rebours

tratto da Losguardo.net, Rivista di filosofia, nr. 23, 2017, “Reinventare il reale”- Jean Baudrillard (2007-2017)

 

Archivio 23 | Reinventare il Reale – Jean Baudrillard 2007-2017

* L’intervista si è svolta il 1° luglio 2016, nella casa di Jean e Marine Baudrillard in Rue Saint- Beuve, a Parigi. Si ringrazia Elisa Fuksas, che ha fatto da interprete tra Tommaso e Marine, e Fausto Fraisopi per aver effettuato una prima sbobinatura-traduzione della registrazione della conversazione fra i tre, estremamente colloquiale, che è stata poi integrata con alcune domande che Fagioli aveva precedentemente inviato a Marine, per essere adattata alla pagina scritta [N.d.C.]

 

(riprendo questa bella intervista alla moglie del filosofo Jean Baudrillard, scomparso nel 2007, come introduzione oltre che all’ottimo numero della rivista Lo sguardo.net a lui dedicato, che invito a leggere e scaricare, anche ad una mia rivisitazione di alcuni temi a lui cari, dalla seduzione ai simulacri  SB)

 

FAGIOLI – Baudrillard è nato nella città di Reims, nel nord-est della Francia, sede di una delle più famose cattedrali della cristianità. I suoi nonni erano contadini, e i suoi genitori dei funzionari civili. Che rapporto aveva con le proprie radici?

DUPUIS – Ha cominciato a imparare il tedesco, con l’intenzione di tirarsi fuori da una famiglia molto modesta di cui non amava [la mentalità]… Sua madre faceva la postina, suo padre era un gendarme: era qualcosa da cui voleva assolutamente allontanarsi. A ciò si può chiaramente aggiungere molto altro, ma il tutto dà come risultato una persona che è stata obbligata a vivere la sua intelligenza accanto a questa realtà. È invidiabile ? Non ne sono sicura, perché lui [J.B.] era, come dire …ossessionato da tutto ciò, e quindi diceva di me: “Marine è la vita”. Questo significa che rappresentavo per lui in qualche modo un’interfaccia [con la vita]. Perché lui era, ripeto, ossessionato, [dalla vita come da] una piccola cosa che cade dal cielo.

FAGIOLI – La propria vita in retrospettiva sembra tutto fuorché libera, razionale, e arbitraria, come guidata da un’inesorabile necessità mascherata dagli artifizi del caso – inclusi gli incontri. In quali circostanze vi siete conosciuti?

DUPUIS – Ho incontrato Jean a Nanterre nel 1970, tornavo da un giro del mondo in barca con il mio fidanzato. Ero ancora molto giovane e abitavo su una casa galleggiante [peniche]. Jean mi ha chiamata sin dall’inizio Marine, ma mi chiamavo Martine, e dopo questo è iniziato tutto.

 

FAGIOLI – E per tutta la vita!

 

DUPUIS – Ancora oggi, quando vado a farmi curare, mi dicono: “Ma Lei si chiama Martine”, e bla bla bla…

 

FAGIOLI – Com’è iniziato il gioco di seduzione? Lei aveva 25 anni!

DUPUIS – E 25 anni di differenza… io ne avevo 25 quando l’ho incontrato. Ti dirò, avevo 25 anni perché ero andata a spasso per il mondo, in barca, mentre gli altri avevano 21 anni… io ne avevo 4 di più, ero abbronzata e arrivavo dopo il ’68. Ció significa che c’era una grande confusione nelle Università, soprattutto a Nanterre. C’era già stato il movimento di Maggio con… come si chiama… Cohn-Bendit, ma era [ancora] un gran casino: il professore stava là con gli studenti seduti ovunque, tutti che urlavano, fumavano, non sapevo di fronte a cosa mi sarei trovata. E Jean che parlava… aveva l’aria molto distesa, non aveva problemi di esami perché dava buone note a tutti.

FAGIOLI – Una specie di 18 politico, come in Italia. In diversi commenti sull’Italia, rintracciabili per esempio in “Cool Memories” e in altri saggi, Baudrillard sembra subire una fascinazione particolare per il nostro Paese, per i suoi abitanti, i suoi politici, le sue contraddizioni, i suoi eccessi, le sue dissimulazioni: una fascinazione simile a quella che aveva per le donne e per il femminile. Che idea aveva dell’Italia? Cosa pensava degli italiani?

DUPUIS – Beh, li adorava. Mi poni domande sull’Italia e sulle donne, ma quando ho incontrato Jean avevo 25 anni, lui era più vecchio e all’epoca aveva già avuto una moglie e dei figli. Si erano poi separati e aveva detto che mai mai e poi mai avrebbe vissuto di nuovo con una donna… mai mai mai… E quindi ci ho messo vent’anni a sedurre Jean, ad avvicinarmi fino alla fine. D’altra parte, nel periodo in cui l’ho conosciuto visitava molto l’Italia, soprattutto Urbino.

FAGIOLI – È lei che lo ha sedotto o lui?

DUPUIS – Fu reciproco, ma tutto questo per dire che non facevo parte del gruppo di Urbino, era negli anni ’75-77, e là si è dovuto divertire molto con tutte quelle italiane… Ci sono delle foto che mi lasciano pensare che si sia molto divertito, che ne abbia ben approfittato.

FAGIOLI – Come definirebbe la voce di Baudrillard?

 

DUPUIS – No, no! Sei tu che farai il lavoro… sei tu che dovrai ascoltarla e dunque definirla. Io ne gioisco, tutto qua. Aspetta, avevo là [sullo scaffale] anche un piccolo video. Quando sono troppo triste, mi metto a guardare un piccolo video di Jean [disponibile all’indirizzo: https://youtu.be/msLZeiUzltU%5D. Nel video c’è tuttavia un po’ di eco. Jean ha una maniera dolce di pronuciare le parole, di mettere dolcemente le parole insieme l’una con l’altra».

FAGIOLI – Ha una voce dolce, e le mani sono piccole.

 

DUPUIS – Delle mani da contadino, sono delle mani di origine contadina. Dicevo: un modo di accostare le parole in modo del tutto dolce ma, allo stesso tempo, senza traccia di esitazione. Si trattava di quella parola, non di un’altra, e lo pronunciava con dolcezza, non lo imponeva a nessuno. Se gli si poneva una questione e poi qualcuno lo interrompeva, non aveva interesse per lui, non imponeva la sua parola, capisci cosa intendo?

FAGIOLI – Era sempre tranquillo, non aveva mai reazioni violente?

DUPUIS – Aveva un’incredibile padronanza di sé… eccetto, ah, eccetto in macchina… amava guidare, era bello, pieno di donne, anche quando l’ho conosciuto amava le macchine, adorava la velocità. Allora, quando c’era un imbecille [che lo rallentava] vedevo un [altro] essere accanto a me, come un demone, che usciva dalla testa di Jean. Non puoi immaginare, era qualcosa di incredibile, spaventoso. Si trattava di un cambiamento totale di personalità. A parte questo, quando c’era un imbecille che gli poneva una domanda totalmente imbecille, in una conferenza, a cena… altrimenti mai.

 

FAGIOLI – Quindi anche Baudrillard non avrebbe superato il test di resilienza in auto. Perché in Italia le persone si trasformano completamente in delle bestie.

 

DUPUIS – Ma era spaventoso, tutti avevano paura tanto andava veloce. Ed io avevo trovato la soluzione: bere e mettermi sul sedile posteriore. Non c’era che quella soluzione tanto avevo paura, e un giorno [gli] dissi: «non posso continuare a bere così, non è possibile». Mi ha risposto: «Va bene, adesso guidi tu». Ma era anche peggio, perché guidavo come una femminuccia e mi diceva: «Non senti il motore che soffre?». Io non sentivo proprio nulla.

FAGIOLI – Le marce, la frizione… in effetti la macchina è un’estensione del corpo.

DUPUIS – Certo, è del tutto chiaro, ma io non sentivo proprio nulla, era vero che fossi completamente insensibile!

 

 

 

FAGIOLI – A proposito di sensazioni, Baudrillard è l’unico pensatore a cui riesco ad associare una musica, una specie di suono-Baudrillard che riflette la fine dell’umanità, il deserto del senso, e un ‘oltre’ impensabile: “Collapse”, dei Boards of Canada, e “Icefire” di Pat Metheney. Che musica ascoltava Jean?

 

DUPUIS – Che musica ascoltava? Amava molto la musica barocca, Monteverdi, gli anni galanti… capisci, altrimenti ascoltava anche la banana… i Velvet Underground.

 

FAGIOLI – Ma lavorava ascoltando musica?

 

DUPUIS – Mai, mai, mai!

 

FAGIOLI – Silenzio assoluto!

 

DUPUIS – D’altronde non credo che facesse due cose allo stesso tempo. Jean, quando scriveva, quando lavorava, aveva una specie di oggetto che non ho ritrovato, conosci quelle cose kitsch degli anni ’70 con la sabbia, l’olio, quella specie di quadri che giri. Ecco, poteva guardarlo per ore.

 

FAGIOLI – Per pensare?

DUPUIS – E poi batteva intensamente a macchina, sulla sua vecchia macchina da scrivere, mai al computer.

FAGIOLI – E aveva degli orari fissi per lavorare? Com’era organizzata la sua giornata lavorativa e come interpretava la “professione” di pensatore?

DUPUIS – Prima di tutto non era così che funzionava [come con una ‘professione’, N.d.C.]. Aveva una piccola vanità, credo: non amava che si vedesse lo sforzo nelle cose che faceva, per lui era volgare mostrare lo sforzo. Quindi non lo vedevo lavorare quasi mai… e gli dicevo: «Andiamo a fare un giro?» o «E se andassimo due giorni ad Anversa?». Mai mi ha detto: «No, devo lavorare, devo finire una cosa». Bisogna dire che anch’io lavoravo molto, e [così] lui restava tranquillo durante la giornata… Questo significa una vita estremamente semplice! A parte i viaggi, non vedevamo molte persone. Jean era attento a sfuggire all’entertainment. E questo lo pagava a caro prezzo, perché quando ti trovi in un paese [straniero] e non vuoi incontrare i giornalisti, non vuoi andare a fare trasmissioni alla televisione, non vuoi abbandonarti alla mondanità…»

FAGIOLI – L’entertainment è il lavoro, il pensiero!

DUPUIS – E questo rappresentava per lui il godimento assoluto!

 

FAGIOLI – Un godimento?

 

DUPUIS – Certo, proprio godimento! Aveva trovato la sua armonia, era una persona molto armoniosa. Quando lo incontravi era molto ben disposto, non aveva mai un giudizio su qualcuno, mai ma proprio mai. E questo per delle ragioni molto semplici, e cioè che pensava che l’intelligenza e la stupidità potessero facilmente invertirsi, quindi non giudicava le persone. Metti tutto questo nel tuo personaggio, e poi metti un’altra cosa, che mi ha abbagliata, abbagliata dall’inizio alla fine… non aveva mai un doppio volto, non l’ho mai visto con due volti differenti con persone diverse, non era assolutamente ipocrita. Se incontrava il Presidente della Repubblica era esattamente lo stesso che parlava col portiere. È qualcosa di molto impressionante, perché continuo a vedere intellettuali andare in giro… se tu sapessi fino a che punto sono capaci di giocare quattro o cinque personaggi alla volta!

 

FAGIOLI – Ma coerentemente col suo pensiero non aveva bisogno di dissimularsi, era quello che era!

 

DUPUIS – Si ma, come dire… a forza di essere nelle sue cose… era divenuto la sua stessa verità, non aveva bisogno di andar a cercare una dottrina per esprimerla. Vedi, era tutto questo, ed è questo che faceva sì che fosse una persona estremamente affascinante.

FAGIOLI – Era romantico con lei?

DUPUIS – Ma proprio per nulla! Assolutamente no! […] Tirerò fuori delle frasi di Jean, per rispondere alla tua domanda. Ve n’è una che dice: «Quando si dice ‘ti amo’ è già il linguaggio che ci si mette ad amare, è la prima infedeltà!».

 

FAGIOLI – Molto sottile!

 

DUPUIS – Puoi ben capire che non era un uomo che ti stava a dire senza sosta: « ti amo, ti amo, ti amo… », no no no, nient’affatto!

 

Lo zen e l’arte della fotografia

 

FAGIOLI – Qual era la sua professione?

DUPUIS – Ero la direttrice artistica di un magazine, per la fotografia. Su internet trovi su di me, spesso, delle sciocchezze, ma alla fine, internet non è per me un canale di conoscenza, quindi non m’interessa.

FAGIOLI – Amo questa foto… Baudrillard parlava di violenza dell’immagine sulla realtà, ma anche di una sorta di vendetta della realtà sull’immagine, ovvero la violenza del senso che la realtà vuole attribuire all’immagine (senso politico, sociale, estetico). D’altra parte, le fotografie di Baudrillard rappresentano in qualche modo la fine dell’illusione dello specchio, immagini che tendono a cancellare il soggetto dalla rappresentazione, e allo stesso tempo vanno oltre la rappresentazione, sono senza rinvio… Che tipo di libertà offriva la fotografia a Baudrillard e che tipo di costrizione? Come si poneva rispetto al fatto di mettere “in mostra” le sue opere, lui che fu così critico con il sistema dell’arte contemporanea, e anche piuttosto attento a mantenere questa sua passione a un livello discreto e amatoriale?

 

DUPUIS – Troppe domande, te lo spiego con un aneddoto. Jean, siamo negli anni ’80, alla fine degli anni ’80, doveva tenere una conferenza in Giappone ed i giapponesi sono sempre usi offrire un piccolo regalo. Gli offrirono una piccola macchina fotografica, veramente piccola, di queste dimensioni. Jean ha così iniziato a divertircisi.

 

FAGIOLI – Non era una passione che aveva da sempre.

DUPUIS – Da solo non l’avrebbe mai fatto. Ci si è divertito. Jean si divertiva molto, veramente molto, non appena poteva: era una persona estremamente faceta, gli piaceva molto divertirsi. Era leggero: ti diceva delle cose, delle cose magnifiche ma te le diceva in modo leggero, come un monaco zen. Sai, era molto orientale, molto leggero, non prendersi sul serio…perché noi, in Europa, abbiamo una tradizione molto pensante, di volontà [di volontarismo]. Jean non era questo, non sentivi mai in lui il minimo sforzo.

FAGIOLI – Perché non vi sentivi la volontà, una volontà tesa…

 

DUPUIS – Dico questo perché molto spesso le persone che venivano a fargli visita gli dicevano: «il tuo pensiero è orientale», e Jean, che aveva una cultura vastissima, che aveva letto gli indiani, le Upanishad, che sapeva tutto del taoismo zen, diceva: «non vale la pena [di scomodare gli orientali]. Si deve poter arrivare a questa ironia – che è poi alla fine il suo dominio d’investigazione – con la propria cultura, non vale la pena di andare a cercare cose esotiche.

 

 

Après coup

FAGIOLI – Talvolta ho delle sensazioni, quando leggo i testi di Baudrillard. Leggere Baudrillard cambia la maniera di pensare e quindi di vivere il mondo. Alcune cose emergono nel loro significato solo dopo mesi, addirittura anni, Spesso le sue intuizioni si capiscono molto tempo dopo. Che tipo di influenza ha avuto su di te1, e quale influenza hai avuto tu su di lui?

 

DUPUIS – Vedi, quando lo leggi dieci anni dopo, ci sono ancora delle cose che escono fuori. Non lo leggi affatto nello stesso modo. Ho dei libri che lessi quando ero giovane e non è affatto la stessa cosa. Ecco quello che voglio dire: quando sto male, leggo un testo di Jean su qualsiasi argomento e mi sento meglio. Dico a me stessa: «di che parla?». Ma non è affatto quello di cui parla, è la forma del suo pensiero che s’imprime nel tuo cervello e che ti motiva.

FAGIOLI – È la sintassi, è la forma di una sensazione. In giornate tristi e pigre per me è una sorta di terapia, o un tonico!

DUPUIS – Esattamente! È una forma, che quando ne segui le tracce – perché questo è leggere un libro, è seguirne le tracce – ti raddrizza la colonna vertrebrale, e poi stai meglio.

 

FAGIOLI – E crea dipendenza. La cosa curiosa è che quando leggo il testo di un grande filosofo sistematico, come ad esempio Kant, mi sembra inzialmente di non capire nulla, ma una volta che ne afferro le premesse, tutto diventa relativamente scorrevole, e posso seguire con un certo ordine la complessità crescente; mentre quando leggo Jean Baudrillard, o ne rileggo qualcosa dopo una settimana, un anno o dieci, è come se il testo fosse mutato nella sua articolazione, nella sua profondità, nei suoi livelli, nella sua complessità. Ad esempio America, il mio preferito, l’ho letto molte volte, ognuna come fosse un testo diverso. Quanto tempo ha passato Baudrillard in America?

 

DUPUIS – Molto tempo, perché mentre doveva insegnare e io seguire i corsi a Nanterre, se ne andava in giro, a dare conferenze qua e là. Tu arrivavi in aula e trovavi scritto: «Il Prof. Baudrillard tornerà fra due mesi». Inoltre Jean, che era di estrazione molto modesta, in quel modo si esponeva; ha amato quel periodo, è stata l’esplosione.

 

FAGIOLI – [J.B.] ha detto che America è probabilmente la sua seconda miglior opera [dopo Lo scambio simbolico e la morte, N.d.C.].

 

DUPUIS – Se è così è perché non è puramente astratto, è la vita: Jean ci dà nel libro chiavi per vivere, per viaggiare, per vedere. Diciamo a noi stessi: se arrivo a comprendere tutto

questo, posso fare ogni cosa.

 

 

La lingua inesistente

DUPUIS – Jean era uno che era riuscito a sfuggire al potere durante tutta la sua vita. Faceva molta attenzione a quest’aspetto, ha sempre odiato gli uomini di potere. […] parlava, qualche volta, in tono sbarazzino, così, senza insistere, e io avevo l’impressione di esser di fronte a dei cristalli, non capivo nulla di quello che diceva, ma proprio nulla, eppure ero al centro, presso il Sacro Cuore di Gesù. Vedevo cristalli e questo piccolo paesano e mi dicevo: «non capisco nulla, ma è troppo bello». E non esce fuori che era malato?! Doveva partire per l’America e era malato. Ed io gli dico: «Senti Jean – era l’inizio dell’I-Ching – sei molto malato, ti faccio l’I-Ching», perché ero molto ferrata nel soggetto. Allora abbiamo cominciato, sono riuscita a ritagliarmi un piccolo spazio, ma anche così la cosa è andata un po’ per le lunghe. Era meravigliato dal suo potere di seduzione. A Montparnasse, i giovani mi dicevano nei caffè: «eccolo con una nuova ragazza». Aveva molto charme e seduceva molto le donne e non c’era da rimproverarglielo o da rovinargli la festa, e lui ne approfittava… a dire il vero… L’intelligenza di Jean si esercitava anche nell’intelligenza di coppia, capisci? Ad esempo non vi era mai, ma proprio mai, il minimo ricatto. Io provenivo da una madre molto autoritaria e possessiva, ma Jean mai, mai e poi mai poteva fare dei giochi di piccoli ricatti, né avrebbe risposto al ricatto… e questo fino alla fine. Alla fine, avrei dato tutto affinché prendesse qualcosa, volevo che mangiasse qualcosa e dicevo: «Jean, se non mangi mi butto dalla finestra» – «Ma prego, accomodati» diceva… era inamovibile. Era una bellissima persona, una bellissima persona.

 

FAGIOLI – Doveva partire per l’America ed era malato. Aveva contratto la malaria prima di partire?

 

DUPUIS – Eh sì, perché io… sono partita a fare delle immersioni subacquee in un arcipelago dell’Oceano Indiano, le isole Comore, e poi, nell’arco di trent’anni, ci sono andata spesso […]. Quindi… avevo fatto una sorta di Trattato di Tordesillas con Jean: «Tu hai il mondo, io ho le Comore», così quando ci veniva con me, perché ci veniva qualche volta, non era che «il marito di Marine». E allora…io che ci andavo spesso, e avevo bisogno che Jean fosse là con me perché avevo bisogno di evadere… avevo creato un caffè filosofico, le Cool Memories. Eccole, le Cool memories: vedi la clientela… e i taxi dell’isola. Avevo creato un Baudrillard’s Land. Jean… era un uomo… non è questione di esprimere la mia ammirazione, perché lo avrebbe odiato e poi non si trattava di una venerazione. Si trattava di una vera coppia, litigavamo molto e quando andavo a dormire dicevo a me stessa: «questo stronzo ha ragione»… beh, era cosi, ma alla fine tutto è andato in un modo ben preciso. Se volete sapere tutto, dopo l’11 Settembre, Jean aveva del sangue nelle urine. Gli dicevo: «Bisogna che ti faccia curare!». Era talmente eccitato per l’11 Settembre, talmente eccitato. Non avrebbe potuto impedirlo, chiaramente, ma vi aveva scorto la matrice di un cambiamento mondiale. E quindi [soltanto] dopo si fece curare, ma la cosa era peggiorata e il male si era velocemente diffuso al sistema nervoso, al sistema circolatorio, nel sangue. Jean si era fatto curare per farmi piacere. Quando andammo a fare le chemio, io avevo consultato tutti i migliori oncologi di Parigi, con dossier enormi, ecc. Quando [i medici] arrivavano nella stanza, trovavano Jean che diceva, come se niente fosse: «Ah bene, Marine è andata a telefonare, ritorna fra cinque minuti», come se il tutto non lo riguardasse. «Aspettate cinque minuti, ritornerà», e ricominciava a leggere. E [dovevi vedere] quei tizi, i grandi mandarini che ero riuscita a trovare con molte difficoltà!

FAGIOLI – Bisogna dire che per Baudrillard le cure mediche erano una forma di potere…

DUPUIS – Sì, odiava i medici. E c’è a riguardo anche un piccolo aneddoto : tutto è successo qui e un giorno mi dice che era veramente molto, troppo sofferente. Un giorno, visto che ero d’accordo col farmacista, col medico, con l’oncologo, con tutti… un giorno in cui Jean era veramente molto sofferente, mentre ascoltava musica, gli abbiamo somministrato della morfina. La notte stessa Jean si è messo a parlare una lingua inesistente. E all’indomani, raccontandogli l’accaduto, gli dissi: «Jean non mi far questo perché non potrei sopportare il fatto che tu diventi pazzo!». E mi ha risposto: «Come? Ho parlato una lingua inesistente? È geniale, avresti dovuto registrarmi!» Era eccitato, e si è rimesso a parlarne. Stava morendo, ma quello che gli interessava era «cosa è accaduto in questa storia?», «cos’era quella lingua inesistente?».

FAGIOLI – Ma questa lingua era inesistente perché era incomprensibile, o…?

 

DUPUIS – No, ti assicuro, era una lingua inesistente perché non si poteva dire che assomigliasse all’indiano o a non so cosa, non esisteva affatto. Era incredibile!

FAGIOLI – Era una lingua patafisica!

DUPUIS – Forse, forse… [ride].

 

 

 

 

Nel vuoto, la potenza del pensiero

DUPUIS – Dopo vi mostrerò il suo ufficio. Era pieno di libri, tutto quello che gli interessava, mentre quello che non gli interessava, semplicemente non esisteva. Quindi non era il caso [di riempire]… potevi portare anche una pigna o altro, ma in modo del tutto semplice… tutto si svuotava.

 

FAGIOLI – Se un filosofo tende a ridurre il mondo a propria immagine, e talvolta ne soffre come di una sorta di claustrofobia intellettuale, come riusciva Baudrillard a relativizzarsi come singolo? A relativizzare il potere del proprio pensiero?

 

DUPUIS – Vedi, riguardo alla potenza del pensiero… Non c’era bisogno di dire le cose. Il suo entourage capiva molto bene [anche senza che parlasse]. Jean non era qualcuno che desse ordini, era incredibilmente dolce e bendisposto, calmo, non andava mai in collera e non era mai arrabbiato – ma la potenza del suo pensiero faceva in modo che tu non avessi voglia di distoglierti da quel pensiero per ritornare a piccole questioni ordinarie.

FAGIOLI – Capisco… [un silenzio che funzionava] come un’emanazione del suo pensiero.

DUPUIS – L’emanazione di un pensiero potente. Questo fenomeno andava molto lontano, perché [da] quando si è ammalato, l’agonia è durata quasi quattro anni – tra l’inizio e la fine della malattia sono passati quattro anni… come sai, accade nel caso del cancro. Jean non ha mai avuto bisogno di dire a chicchessia che voleva morire qui, affatto, non ha detto mai nulla a nessuno, e tutti si sono messi al suo servizio. Io senza dubbio, ma per amore, gli altri non per amore: il farmacista, il dottore, l’oncologo, il professore… tutti!

 

FAGIOLI – Tutti qui a casa!

 

DUPUIS – Ognuno al suo posto, e nessuno ha discusso, nessuno ha detto: «ma dai, sarebbe più semplice portarlo all’ospedale!» No. Ha imposto le sue regole, così, come se niente fosse. Questo è incredibile! Questo significa la potenza del pensiero. Vedi, bisogna credere nella potenza del pensiero, e non val la pena di riempire: più tu riempi, più complichi il gioco.

 

FAGIOLI – Il gioco, ma anche il mestiere di pensare! Qual era il suo rituale quotidiano nell’esercizio del pensiero?

DUPUIS – Come dicevo, l’idea non era di riempire, con delle teiere o altre cose: Jean amava il vuoto, quindi non era un divieto di mettere oggetti, si trattava semplicemente del fatto che si trovava bene nel vuoto, non solamente il vuoto di oggetti, ma anche il vuoto delle persone. Ti racconto un piccolo rituale: tutte le mattine scendeva… no, aspetta, te lo racconto in modo diverso. Un giorno, Jean era già morto da tre anni e qualcuno mi ferma per la strada e mi dice: «Ho un regalo per lei». Io rispondo: «Grazie, lo accetto volentieri… è carino da parte sua». E questo signore mi dice che è una fotografia e mi dà una fotografia: posso mostrarvela? Non riesco a trovare il grande formato della fotografia ma la misi su carta. Allora, vi spiego di cosa si trattava: tutte le mattine Jean scendeva, prendeva la sua posta, andava là, al cestino dell’immondizia, leggeva la posta e la gettava, paf… Se c’era un assegno, se lo metteva in tasca. Non conservava alcun documento, i documenti dell’assicurazione sanitaria, i documenti dell’affitto, i documenti dell’assicurazione, gettava tutto.

FAGIOLI – Posso immaginare quest’azione: è così che il mondo viene gettato nell’immondizia.

DUPUIS – Quel fotografo che ha scattato la foto abitava proprio davanti al cestino dell’immondizia e tutti i giorni vedeva quel tizio che arrivava con la sua posta e avrà detto fra sé e sé: ma chi è quello?… fino al giorno in cui chiese ad un amico: «ma quell’uomo che getta ogni giorno la posta nel secchio dell’immondizia abita in questo quartiere?». L’amico gli risponde: «si! È Jean Baudrillard». Allora a partire da quel momento ha fatto molte foto e me le ha offerte, sebbene Jean fosse morto tre anni prima. Una cosa incredibile! E c’è un’altra storiella simile: [la foto di me che] stavo aspettando Jean in un caffè e lui arriva, si china verso di me e mi dà un bacio… e io ricevo così la foto di un bacio di Jean tre anni dopo la sua morte… Era una cosa incredibile! Avevo l’impressione che Jean m’inviasse un bacio dall’aldilà.

L’eredità di Baudrillard

DUPUIS – Jean mi ha lasciato una bella eredità. Non si tratta di denaro… è incredibile no? è piuttosto ciò che fa si che tu vai in Cina, incontri dei ragazzi di 20-25 anni e ti rendi conto di quello che è successo là: non sai come, non sai da dove [il suo pensiero] sia passato… Vale a dire che sono la sola persona che va in Cina non per fare soldi e ritorna… capisci quello che intendo? Vai ovunque e il pensiero emerge, sfuggendo completamente alla finanziarizzazione del mondo. Ed il pensiero è qualcosa di magnifico, è il nostro spirito, è con questo che si continua a crescere, è con questo che vi amerete, […] capisci, il pensiero è l’essenza stessa che ci muove e qualcosa che non perisce. Ecco perché l’eredità di Jean è incredibile. Ha lasciato dietro di sé gli strumenti per sopravvivergli.

 

FAGIOLI – In effetti, anch’io sono sotto la sua influenza.

DUPUIS – Posso capirlo, ed è così ovunque. Potrei farti leggere lo scritto di uno che descrive come Jean abbia cambiato la sua vita. Non conosco questo ragazzo. Ha scritto un libro eccellente su Jeff Koons. Leggo il libro e mi dico: «ma guarda! Lui ha letto Baudrillard». Quindi gli invio un piccolo messaggio che dice: «Ho veramente apprezzato il suo libro». E mi risponde che è professore d’arte a Lille: «Siamo una piccola banda e Baudrillard è la parola d’ordine, una cosa che ci aiuta veramente a vivere, a pensare». Bello no?! Bisogna rallegrarsene molto, ma va bene così, va bene così.

FAGIOLI – «Tomorrow is the first day of the rest of your life». Nella scena di apertura del film American Beauty [Usa 1999, scritto da Alan Ball e diretto da Sam Mendes, N.d.C.] il protagonista pronuncia questa frase, che compare anche nel primo capitolo di America, Vanishing Point. Ho sempre pensato che il film sia in parte ispirato allo scritto di Baudrillard, così popolare negli Stati Uniti, forse anche per il carattere così intrisecamente cinematico del suo pensiero sull’America.

DUPUIS – Sì. Ma è qualcuno che l’ha fatto senza dirglielo, perché Jean non ha mai avuto contatti con quelle persone, che in ogni modo avevano potuto leggere Jean Baudrillard. Quello che è incredibile è che oggi non c’è più pensiero… Io sono molto tranquilla a riguardo. Jean non era per nulla sicuro del fatto che l’intelligenza potesse restare un attributo dell’umanità2. E bisogna dire che questo… certo, non lo si può misurare nel lasso di tempo di una vita… ma non ne era affatto sicuro. Pensava che potesse rinchiudersi su se stessa, che ci si potesse tecnicizzare a morte e avere inventato, come diceva, il mezzo della nostra estinzione. Ma se, malgrado tutto, l’intelligenza si sviluppa cammin facendo, si riparlerà di Baudrillard – ma tutto questo non è grave. Jean non ha mai voluto discepoli, non ha affatto preparato la sua successione, la sua posterità… mai e poi mai. Per far questo, avrebbe dovuto esser convinto di essere in possesso di una verità e che si dovesse assolutamente proteggerla. No, non era proprio tipico di Jean. Aveva un modo di metabolizzare il reale, di insegnarci a metabolizzare quello che ci succede… si trattava piuttosto di una postura mentale. Vedi, è qualcosa del genere, anche se usava delle parole bellissime, uno stile eccellente, come un artista, ma non si tratta di una dottrina con una verità stabilita.

FAGIOLI – Si tratta piuttosto di un artista del pensiero. In questo senso, verrebbe da dire che Baudrillard stava alla filosofia come Carmelo Bene al teatro.

DUPUIS – Guarda Tommaso, non sei venuto per niente. Per la morte di Jean, ho inviato questa piccola foto per comunicare il [il giorno e il luogo del] funerale e tutto il resto, sai, c’è bisogno di un invito e ho scelto questa foto perché pensavo che quel momento fosse la nascita [di tutto], e che fosse giusto inviare l’immagine di un ombelico anche per la morte. Mi capisci? Perché questo chiudeva un cerchio e ho messo questo sul retro. Ed ecco, è come se tu fossi invitato al funerale di Jean.

 

 

Iperturismo cafonal & Effetto Beaubourg

Gallipoli

 

Iperturismo cafonal & Effetto Beaubourg

 

L’estate del 2017 verrà ricordata non solo come una delle più calde degli ultimi decenni, ma anche come quella dell’emergenza di frizioni connesse all’invadenza del turismo di massa, agevolato dalle tariffe low cost di viaggi, affitti e prenotazioni on line. Mi vengono in mente Gallipoli (LE), Dubrovnik (dov’è stato introdotto il numero chiuso), Barcellona (con la protesta degli abitanti), ma anche spiagge, porti, per esempio in Sardegna, senza dimenticare la Fontana di Trevi a Roma o le navi da crociera a Venezia. Ai già notevoli problemi di affluenza, traffico, controllo, sicurezza, sanità pubblica (che poco interessano naturalmente alle compagnie aeree e agli affittuari) si aggiunga il fatto che le località oggetto di questo iperturismo di massa diventano anche obiettivo privilegiato dei terroristi. Ma anche senza terroristi, occorre aggiungere ormai la problematicità di gestione di movide e manifestazioni di massa in genere: non dimentichiamo quello che è successo a Torino in piazza Statuto , dove si è sfiorata la strage per panico derivante da motivi probabilmente molto futili, per un fenomeno collettivo di autosuggestione. Peraltro le stesse considerazioni erano già state fatte in occasione dell’attentato al Bataclan di Parigini: Libération infatti intitolava un suo articolo “Génération Bataclan : la jeunesse qui trinque –  En s’attaquant aux lieux festifs de Paris et Saint-Denis, les terroristes ont ciblé le mode de vie hédoniste et urbain d’une génération déjà marquée par «Charlie». ». 

Tralascio qui quel che le singole amministrazioni faranno o non faranno per arginare il problema, e ricondurre le mandrie a più miti consigli. Forse introducendo il numero chiuso da una parte, le mandrie si trasferiranno da un’altra, dove gli affittuari saranno ben contenti di ehm, fornire loro un recinto o una movida ancora più stracciona. Forse qualcuno farà ricorso al TAR o all’ONU o al Papa per violazione del principio umanitario sacrosanto di pascolare, pisciare, scacazzare e scopare ovunque, non lo so. Jean Baudrillard ci aveva visto giusto già nel 1977, quando scrisse un suo saggio sul Beaubourg, visto come anticipazione  degli attuali fenomeni degenerativi (consiglio di leggerlo per intero, ovviamente, e senza pregiudizi moralistici) :

 

L’EFFETTO BEAUBOURG

Jean Baudrillard, 1977

 

Animazione. Rianimazione.

Implosione irreversibile in profondità.

L’unico contenuto di Beaubourg è la massa stessa, che l’edificio tratta come un convertitore, come una camera oscura o in termini di input/output…Non è mai stato così chiaro che il contenuto – qui la cultura, altrove l’informazione o la merce – è solo il supporto fantasma di quanto viene compiuto dal medium stesso, la cui funzione è sempre quella di indurre una massa, di produrre un flusso umano e mentale omogeneo.

Ipermercato della cultura,  già il modello di qualsiasi forma futura di socializzazione controllata: ritotalizzazione in uno spazio-tempo omogeneo di tutte le funzioni disperse del corpo e della vita sociale (lavoro, tempo libero, media, cultura), ritrascrizione di tutti i flussi contraddittori in termini di circuiti integrati…

Qui si elabora la massa critica, oltre la quale la merce diviene ipermerce e la cultura ipercultura…una specie di universo segnaletico totale, o di circuito integrato, transito incessante di scelte, letture, referenti, marchi, decodifiche…

Dovunque nel “mondo civile” la costruzione di stocks di oggetti ha comportato il processo complementare degli stocks di uomini: la coda, l’attesa, l’imbottigliamento, la concentrazione, il campo di concentramento. Questa è la “produzione di massa”, non nel senso di una produzione massiccia o ad uso delle masse, ma la produzione della massa. La massa come prodotto finale di ogni socialità, che pone fine di colpo alla socialità; giacchè questa massa, di cui ci si vuol far credere che è il sociale, è al contrario il luogo dell’implosione del sociale.

Ma se gli stocks di oggetti implicano lo stoccaggio degli uomini, la violenza latente nello stock di oggetti implica la violenza inversa degli uomini. Qualunque stock è violento, e c’è una violenza specifica anche in qualòunque massa umana, poichè implode – violenza propria alla sua gravitazione, al suo addensarsi intorno al suo punto (foyer) d’inerzia…

Massa critica, massa implosiva…la massa calamitata dalla struttura diventa una variabile disrtuttiva della struttura stessa…Fate piegare Beaubourg” Nuova parola d’ordine rivoluzionaria: inutile incendiarlo, inutile contestarlo, andateci! E’ il modo migliore per distruggerlo. Il successo di Beaubourg non è più un mistero: le persone ci vanno per questo, si riversano su questo edificio, la cui fragilità respira già la catastrofe, con il solo scopo di farlo piegare…mirano espressamente, senza saperlo, a questo annientamento. L’irruzione è il solo atto che la massa possa compiere in quanto tale – massa proiettile che ribatte con il suo peso, cioè con il suo aspetto più stupido, più spoglio di senso, meno culturale, alla sfida di culturalità lanciata da Beaubourg…Alla dissuasione mentale la massa risponde con una dissuasione fisica diretta. E’ la sua propria sfida, la sua astuzia…ipersimulazione distruttiva.

La gente ha voglia di prendere tutto, di azzannare tutto, di abbuffarsi di tutto, di manipolare tutto. Vedere, decifrare, imparare non la emoziona. La sola emozione “massiccia” (di massa) è quella della manipolazione. “

 

 

 

 

 

 

La poltrona Djinn (Airborne International) – 2001 Odissea nello spazio

4632_ppl

Nei vecchi film di fantascienza anni ’50 o ’60 del secolo scorso è facile che vi fossero fra l’altro oggetti che anche nel design hanno anticipato oggetti tecnologici effettivamente realizzati qualche decennio dopo, come ad esempio i CD ne La macchina del tempo o i tablet in 2001 Odissea nello spazio. I legali di Samsung hanno allegato una sequenza di quest’ultimo per dimostrare che il design di Galaxy e altri smartphones non è stato copiato da altri, ma esisteva già prima in un’opera di fantasia. In una scena del film, i membri dell’equipaggio guardano un video su una tavoletta dalle dimensioni e dalla forma simili all’iPad (http://www.wired.co.uk/news/archive/2011-08/24/samsung-2001-prior-art)

Più in generale, era l’intero set ad essere avvenirista e modernista, “un parco giochi futuristico”, dallo spazio all’arredamento fino ai costumi disegnati da Hardy Amies:

“Il guardaroba di Kubrick in 2001 rifletteva ancora lo stile slanciato degli abiti che andava nel 1960, come le tute unisex con pantaloni. Quando i personaggi sono nelle stazioni spaziali, invece, i vestiti rispecchiano lo stile classico delle tute spaziali e sono colorate in giallo, blu e rosso luminoso o metalliche.”.

“La science fiction indubbiamente forniva un repertorio iconico e di soluzioni formali ricorrenti nella cultura pop: dalla House of the Future degli Smithson e i progetti del gruppo Archigram al design avveniristico degli anni sessanta (le poltrone Djinn di Olivier Mourgue del 1965, utilizzate tre anni dopo da Stanley Kubrick in 2001: A Space Odyssey, la Globe Chair di Eero Aarnio del 1963, o Visiona 1, l’habitat futuristico presentato da ]oe Colombo alla Fiera di Colonia nel 1969), dalla collezione spaziale del 1964 proposta da André Courrèges o a quella di Pierre Cardin del 1967 fino ai costumi disegnati da Paco Rabanne per quel vero e proprio florilegio di sensibilità pop estremizzate che fu Barbarella di Roger Vadim.”

(Andrea Mecacci, L’estetica del Pop, Donzelli, 2011)

camera_letto_2001

Fra il racconto La sentinella di Arthur C.Clarke, da cui 2001 è tratto, e la realizzazione del film, intercorre uno spostamento dalla narrazione alla percezione che si traduce in teoria dell’immagine. Kubrick e Clarke collaborarono alla sceneggiatura, anche per quanto riguarda i dettagli scientifici, ma il film è del tutto diverso dal romanzo. Vennero assunti esperti della NASA per quanto riguarda i veicoli spaziali (Frederick Ordway e Harry Lange), ma furono poi lo scenografo Tony Masters e il direttore artistico Ernest Archer a rendere i loro concetti di design una realtà.

airborne-poltrona-kubrick

Di questo spostamento “dalla narrazione alla percezione” sono testimoni famose le poltrone Djinn, prodotte dal marchio francese Airborne International, “un modello unico per la sua silhouette originale, ribassata e ondulata”, e avveniristica ancora oggi, del designer francese Olivier Mourgue progettate a partire dal 1963 e poi rese famose dal film. Mourgue chiama la linea di poltrone “Djinn” (Genio) perché, secondo una legenda islamica, rappresenta uno spirito che assume una forma umana o animale ed esercita un’influenza soprannaturale sulle persone.
“Il modello originario ha generato anche, un pouf, un sofà a due posti e un lounge, un ancora più rilassante dormeuse concepito e costruito in modo analogo. La caratteristica principale di quest’ oggetto è il disegno in un pezzo unico che comprende, oltre ai piedi e alla seduta, anche un comodo poggia testa. “.

Ma

“Airborne ha costruito Djinn con un telaio in acciaio, gomma piuma e tessuto jersey stretch.
Un’altra innovazione adottata dal designer, Olivier Mourgue, è il fatto di aver rivestito di tessuto l’ intera forma, battezzando così una moda che caratterizza l’intero design degli anni ’60.”.

(http://www.designmag.it/articolo/poltrona-djinn-originale-e-avveniristica/7735/)

La poltrona Djinn-Airborne divenne un’icona del design futuristico degli anni ’60 proprio grazie al film di Kubrick e al suo “avveniristico hotel a cinque stelle di rotazione nello spazio”.

2001OdisseaSpazio_poltrone

L’istanza materna: la poltrona Airborne

…Un tempo le norme morali imponevano all’individuo di adattarsi all’insieme della società, ma questa è l’ideologia ormai superata di un’epoca di produzione; in un’epoca di consumi, o che pretende di essere tale, sarà la società globale ad adattarsi all’individuo. Non soltanto anticipa i suoi bisogni, ma si prende anche la cura di adattare se stessa non a questo o a quel bisogno, ma addirittura all’individuo personalmente …la Vostra poltrona, la Vostra sedia, il Vostro divano…Nella poltrona…bisogna riconoscere l’essenza di una società definitivamente civilizzata, che ha fatto proprio l’ideale della felicità, della Vostra felicità, e che dispensa spontaneamente a ogni suo membro gli strumenti per realizzare se stesso.

…”L’acciaio, è la struttura”. Ecc. L’acciaio esalta, ma è anche un materiale duro, che ricorda lo sforzo, la necessità dell’individuo di adattarsi – si osservi allora come si trasforma e diventa malleabile, come la struttura si umanizzi…La struttura è sempre violenza, la violenza angosciante. Anche a livello di oggetti, rischia di compromettere il rapporto dell’individuo con la società. Per rappacificare la realtà, occorre salvare la quiete delle apparenze. La poltrona diventerà dunque, passando dall’acciaio al tessuto come per una trasmutazione naturale fatta per piacere, uno specchio di forza e tranquillità. Infine l’”estetica” avviluppa la struttura celebrando le nozze definitive dell’oggetto con la “personalità”.

(…)

La società diventa materna per potere meglio conservare un sistema di obblighi e costrizioni. La diffusione dei prodotti e le tecniche pubblicitarie svolgono dunque un ruolo politico immenso: assicurano perfettamente la sostituzione delle ideologie precedenti, morali e politiche. Meglio ancora: mentre l’integrazione morale e politica non è mai avvenuta senza violenza (è stata sempre necessaria la repressione aperta) le nuove tecniche riescono a evitare la repressione: il consumatore interiorizza l’istanza sociale e le sue norme, nell’atto stesso del consumo.

(…)

Gratificazione, frustrazione: due aspetti inscindibili dell’integrazione “

(J.Baudrillard, Il sistema degli oggetti, “La poltrona Airborne”, 1968)

Il mito del Cargo – Jean Baudrillard

(mentre rimuginavo su un articolo che parla di gap delle aspettative, frustrazione diffusa e populismo espiatorio o auto-assolutorio, http://www.ilfoglio.it/soloqui/23335, mi sono imbattuto in questo brano dedicato dal sociologo Jean Baudrillard al Culto del Cargo, di cui ho già parlato nel precedente post. Il libro da cui è tratto è stato pubblicato in Francia nel 1970, e quindi la sua stesura risale a fine anni ’60, all’incirca lo stesso periodo in cui il fisico Richard Feynman si confrontava con le pseudoscienze californiane. Cosa è cambiato oggi rispetto a quella società dei consumi? E più a fondo, come mai si ripropongono sempre gli stessi miti e le stesse curve delle aspettative, con risultati a volte disastrosi e a volte ironici?)

Articoli interessanti che parlano dello stesso argomento:

* Lo strano culto delle navi da carico, http://bhutadarma.wordpress.com/2014/05/22/lo-strano-culto-delle-navi-da-carico/

* Mike Jay, “The Last Cargo Cult”, http://mikejay.net/articles/the-last-cargo-cult/[/

 

THE LAST CARGO CULT

JEAN BAUDRILLARD

IL MITO DEL CARGO

 

(estratto da La società dei consumi, cap. secondo, “Lo statuto miracoloso del consumo”, p.25-28, Il Mulino, 1976)

 

Gli indigeni della Melanesia erano rapiti alla vista degli aerei che sfrecciavano in cielo. Ma mai questi oggetti discendevano fin verso di loro. I bianchi invece riuscivano a catturarli. E questo perché, essi, a terra, disponevano in certi determinati spazi di oggetti simili capaci di attrarre gli aerei volanti. Perciò gli indigeni pensarono di costruire, con rami e liane, un simulacro di aereo. Delimitarono poi un terreno, che illuminavano accuratamente durante la notte, e si misero ad attendere pazientemente che i veri aerei vi si posassero.

*
Senza voler tacciare di primitivismo (e perché no?) i cacciatori-raccoglitori che ai nostri giorni vagano per la giungla delle città, in quanto esposto si potrebbe vedere un apologo del consumo. Il miracolato del consumo mette in mostra tutto un dispositivo di oggetti-simulacro, di segni caratteristici di felicità, e poi attende (disperatamente direbbe un moralista) che la felicità vi si posi.

*
Non è questione di vedervi un principio di analisi. Si tratta semplicemente della mentalità consumatrice privata e collettiva. Ma a questo livello assai superficiale si può arrischiare un confronto: è un pensiero magico che regola il consumo, è una mentalità miracolosa che regola la vita quotidiana, come la mentalità primitiva viene considerata fondata sulla credenza nell’onnipotenza dei pensieri, così qui c’è la credenza nell’onnipotenza dei segni. L’opulenza, l’”affluenza” non è in effetti che l’accumulazione dei segni della felicità. Le soddisfazioni che conferiscono gli oggetti stessi sono equivalenti agli aerei-simulacri, i modelli ridotti dei melanesiani, vale a dire il riflesso anticipato della grande soddisfazione virtuale, dell’opulenza totale, dell’ultimo giubilo dei definitivii miracolati, la cui folle speranza alimenta la banalità quotidiana. Queste minori soddisfazioni non sono altro che delle pratiche di esorcismo, dei mezzi per catturare, per accattivarsi il benessere totale, la beatitudine.

*
Nella pratica quotidiana i benefici del consumo non sono vissuti come il risultato di un’opera o di un processo di produzione, sono vissuti come miracolo. C’è certo una differenza tra l’indigeno melanesiano e il telespettatore che si siede davanti al proprio apparecchio, spinge il bottone e attende che le immagini del mondo intero discendano verso di lui: e consiste nel fatto che generalmente le immagini obbediscono, mentre gli aerei non accondiscendono mai ad atterrare a motivo dell’ingiunzione magica. Ma questo successo tecnico non è sufficiente a dimostrare che il nostro comportamento sia di ordine reale e quello degli indigeni di ordine immaginario. Infatti la stessa economia psichica fa sì che da un lato la fiducia magica degli indigeni non venga mai meno (se essa non funziona è perché non si è fatto quel che si doveva fare) e che, d’altro lato, il miracolo della TV sia perpetuamente realizzato senza cessare di essere un miracolo – e questo grazie alla tecnica che cancella per la coscienza del consumatore il principio stesso della realtà sociale, il lungo processo sociale di produzione che conduce al consumo delle immagini. Per questo il telespettatore, come l’indigeno, vive l’appropriazione come una captazione in virtù di una modalità di efficacia miracolosa.

 

xBurning-Man-Day-3-Part-B,P20,P281098,P20of,P201531,P29-X3.jpg.pagespeed.ic._gCsPzhP7o

Burning Man 2013

IL MITO DEL CARGO
I beni di consumo si propongono come una potenza carpita, non come prodotti del lavoro. E più in generale la profusione dei beni è sentita, una volta privata delle sue determinazioni oggettive, come una grazia della natura, come una manna e un beneficio del cielo. I melanesiani – ancora loro – hanno sviluppato a contatto coi bianchi un culto messianico, quello del Cargo: i bianchi vivono nella profusione mentre essi non hanno nulla, questo perché i bianchi sanno catturare o sviare le merci che sono spedite a loro, i neri, dai loro antenati ritiratisi ai confini del mondo. Un giorno, una volta posta in scacco la magia dei bianchi, i loro antenati ritorneranno col carico miracoloso ed essi non conosceranno più il bisogno.
Così i popoli “sottosviluppati” considerano l’”aiuto” occidentale come qualcosa di atteso, di naturale, e che era loro dovuto da lungo tempo. Come una medicina magica, senza rapporto con la storia, la tecnica e il progresso continuo e lo sviluppo mondiale. Ma se vi si guarda un po’ più da vicino, i miracolati occidentali dello sviluppo non si conportano collettivamente allo stesso modo? La massa dei consumatori non vive la profusione come un effetto della natura , circondata com’è dai fantasmi del Paese di Bengodi e persuasa dalla litania pubblicitaria che tutto le sarà dato d’avanzo e che ha sulla profusione un diritto legittimo e inalienabile? La buona fede nel consumo è un elemento nuovo; le nuove generazioni sono ormai delle eredi : esse non ereditano più solamente dei beni, ma anche il diritto naturale all’abbondanza. Così in Occidente rivive il mito del Cargo mentre esso declina in Melanesia.

Infatti anche se l’abbondanza si è fatta quotidiana e banale, essa resta vissuta come un miracolo quotidiano nella misura in cui essa appare non come prodotta, strappata e conquistata al termine di uno sforzo storico e sociale, ma come dispensata da parte di un’istanza mitologica benefica di cui siamo i legittimi eredi: la tecnica, il progresso, la crescita, ecc.
Questo non vuol dire che la nostra società non sia oggettivamente e in maniera decisiva innanzi tutto una società di produzione, un ordine di produzione, dunque il luogo di una strategia economia e politica. Ma questo vuol dire che vi si inserisce un ordine del consumo, che è un ordine della manipolazione dei segni. In questa misura si può tracciare un parallelo (senza dubbio avventuroso) col pensiero magico: infatti l’uno e l’altro vivono di segni e al riparo dei segni. Sempre un maggior numero di aspetti fondamentali delle nostre società contemporanee fanno capo a una logica delle significazioni, a un’analisi dei codici e dei sistemi simbolici – e quest’analisi si deve articolare su quella del processo della produzione materiale e tecnica come suo prolungamento teorico.

 

Trey-Ratcliff-Burning-Man-437-X2

Burning Man 2013

 

Jean Baudrillard – Il debito mondiale e l’universo parallelo

be ready

(a metà anni Novanta c’erano già teorici, sociologi, economisti, “inascoltati”,  che avevano ben presente gli sviluppi del debito-credito  mondiale che avrebbero potuto determinare una crisi finanziaria globale; fra questi Jean Baudrillard, il quale peraltro aveva già delineato le tendenze  della new economy nel suo saggio su Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 1979, e.o.1976; certo, un’interpretazione “originale”, e a suo modo ironica, o no? L’articolo che segue è apparso sul quotidiano Libération nel gennaio 1996)

Un cartellone elettronico in Times Square mostra il debito pubblico americano, un numero astronomico di alcune migliaia di miliardi di dollari che cresce alla velocità di 20.000 dollari al secondo. Un altro cartellone elettronico nel Centro Beaubourg a Parigi mostra le migliaia di secondi che rimangono all’arrivo dell’anno 2000. L’ultimo numero è quello del tempo, che gradualmente diminuisce. Il primo numero è quello del denaro, che incrementa a velocità stratosferiche. L’ultimo numero è un conto alla rovescia verso lo zero. Il primo numero, al contrario, cresce all’infinito.

Nonostante queste differenze, almeno nell’immaginario comune, entrambi questi numeri evocano una catastrofe: lo sparire del tempo in Beaubourg; la crescita esponenziale del debito e la possibilità di un crash finanziario, in Times Square.

La verità è che il debito non sarà mai ripagato. Nessun debito sarà mai ripagato. I conteggi finali non avverranno mai. Se il tempo può essere contato, i soldi mancanti sono al di là di qualsiasi calcolo. Gli Stati Uniti sono già virtualmente incapaci di pagare il loro debito, ma ciò non avrà alcun tipo di conseguenza. Non ci sarà un giorno del giudizio per questa bancarotta virtuale. E’ così semplice entrare in una modalità esponenziale o virtuale di debito che ci renda liberi da qualsiasi responsabilità, siccome non c’è più alcun riferimento, nessun sistema di riferimento da utilizzare come  mezzo di paragone.

La scomparsa di questo universo di riferimento è un fenomeno relativamente nuovo. Quando si guarda al cartellone in Broadway, con i suoi numeri volanti, si ha l’impressione che il debito stia decollando per raggiungere la stratosfera. Si tratta semplicemente del numero di anni luce che una galassia sta percorrendo per svanire nel cosmo. La velocità della liberazione dal debito è come quella di un satellite della Terra. E’ proprio così: il debito percorre una sua propria orbita, con la sua propria traiettoria fatta di capitale che, da ora in poi, è libero da qualsiasi connessione con l’economia reale e si muove in un universo parallelo (l’accelerazione del capitale ha esonerato il denaro dall’essere connesso all’universo di tutti i giorni fatto di produzione, valore ed utilità). Non è neanche più un universo orbitante: è piuttosto extra-orbitale, decentrato, eccentrico, con solo una evanescente probabilità che, un giorno, potrebbe tornare ad unirsi a noi. Ecco perché non c’è debito che verrà mai ripagato. Al più, lo si potrà ricomprare ad un prezzo di favore per tornare poi a piazzarlo sul mercato del debito (debito pubblico, debito nazionale, debito globale) dove sarà ormai diventato una moneta di scambio. Siccome non esiste una scadenza per l’estinzione del debito, il debito ha un valore inestimabile. Fino a quando continuerà a pendere sulle nostre teste senza alcuna connessione ad alcun sistema di riferimento, servirà anche come nostra unica garanzia contro il passare del tempo. Ma a differenza del conto alla rovescia che mostra la fine del tempo, un debito spostato in avanti all’infinito è la garanzia che anche il tempo è inesauribile… E noi necessitiamo davvero di un’assicurazione virtuale sul tempo, visto che il nostro futuro sta per dissiparsi davanti ai nostri occhi.

our-national-debt

Cancellare il debito, chiudere i conti, cancellare i pagamenti dovuti dal Terzo Mondo… Non pensateci neanche! La nostra vita dipende da questo sbilanciamento, dalla proliferazione e dalla promessa di infinito creata dal debito. Il debito globale o planetario non ha, ovviamente, alcun significato in termini classici di valori o crediti. Ma agisce come nostra unica linea di credito, un simbolico sistema di credito con cui le persone, le aziende, le nazioni sono legate le une alle altre. Le persone sono legate tra di loro (e questo è vero anche per le banche) attraverso le loro “bancarotte virtuali”, allo stesso modo in cui i complici sono legati dal loro crimine. Ognuno è certo d’esistere in funzione dell’altro all’ombra di un debito inestinguibile; perché, a tutt’oggi, la quantità di debito totale supera di gran lunga il capitale disponibile. Quindi, il debito non ha più alcun significato se non quello di unire tutti gli esseri civilizzati nello stesso destino di servi del credito. Una situazione simile si ha con le armi nucleari la cui capacità di distruzione globale è più grande di quella necessaria a distruggere l’intero pianeta. Eppure, rimane un modo per unire tutta l’umanità nello stesso destino marchiato da minaccia e deterrenza.

Almeno, ora è più semplice comprendere perché gli americani sono così desiderosi di pubblicizzare il loro debito domestico in una tale spettacolare maniera. L’iniziativa di Times Square è progettata per far sentire lo Stato colpevole di come gestisce la nazione, ed intende mettere in guardia i cittadini dall’imminente collasso della sfera finanziaria e quella pubblica. Ma ovviamente, il numero esorbitante priva il cartellone di qualunque significato (anche i numeri hanno perso la loro linea di credito). In effetti non è niente più che una gigantesca campagna pubblicitaria e, a proposito, questa è anche la ragione per la quale questo cartellone a neon è costruito in modo da apparire come una trionfante quotazione sul mercato dei valori che è arrivata alle stelle. E le persone rimangono lì a fissarlo, incantate dallo spettacolo di una performance mondiale (allo stesso tempo, raramente guardano l’orologio di Beaubourg che testimonia la graduale fine di questo secolo). Le persone sono collettivamente nella stessa situazione di quel pilota di test russo che, fino all’ultimissimo secondo, era nell’impossibilità di vedere il suo aeroplano cadere e distruggersi nel sistema video del suo jet Tupolev. Avrà avuto all’ultimo il riflesso di guardare le immagini nello schermo prima di morire? Potrebbe aver immaginato i suoi ultimi attimi di vita nella realtà virtuale. Le immagini saranno sopravvissute al pilota, anche per un decimo di secondo, oppure sarà accaduto il contrario? La realtà virtuale continuerà ad esistere dopo che il mondo reale avrà raggiunto la catastrofe? I nostri veri satelliti artificiali sono il debito globale, il flusso di capitali e le testate nucleari che circolano intorno alla terra in una danza orbitale. Come puri artifatti, con una velocità siderale e l’istantanea capacità di invertire la propria rotta, hanno trovato il loro posto più appropriato. Questo posto è addirittura più straordinario del mercato dei valori, delle banche, o degli armamenti nucleari: è quello dell’orbita, dove sorgono e tramontano come soli artificiali.

 

shanghai-skyline-story-top

 

Alcuni dei più recenti tra questi universi paralleli che si sviluppano esponenzialmente sono Internet e le numerose ragnatele di informazione globali. Ogni giorno, in tempo reale, l’irresistibile crescita (eccessiva, forse) di informazioni che si hanno in Internet potrebbe essere misurata con numeri che rappresentano i milioni di persone che la usano ed i miliardi di operazioni che effettuano. L’informazione oggi si espande a tal misura che non ha più nulla a che vedere con l’accrescimento della conoscenza. Il potenziale immenso dell’informazione non sarà mai messo a frutto nè raggiungerà mai il suo scopo. È proprio come con il debito. L’informazione è tanto insolubile quanto il debito e non potremo mai eliminarla. Collezionare dati, accumulare e trasportare informazioni attraverso tutto il mondo sono la stessa cosa che sottoscrivere un debito inestinguibile. Ed anche qui, siccome la proliferazione dell’informazione avviene in misura maggiore della necessità e della capacità di processarla da parte ciascun individuo e di tutta l’umanità in generale, non ha altro significato che quello di legare insieme tutti gli esseri umani in un destino di automazione cerebrale e sottosviluppo mentale. È chiaro che se una piccola dose di informazione riduce l’ignoranza, una dose massiccia di intelligenza artificiale può solo rafforzare il credo che la nostra intelligenza naturale sia deficitaria. La cosa peggiore che potrebbe accadere ad una persona è conoscere troppo, e quindi cadere travolta dalla conoscenza. Avviene esattamente lo stesso con il senso di responsabilità e la capacità di emozionarsi: il continuo essere bombardati dai media con immagini ed informazioni di violenza, sofferenza e catastrofe, ben lontano dallo stimolare qualche tipo di solidarietà collettiva, dimostra soltanto la nostra reale impotenza e ci spinge verso il panico ed il rimorso.

Intrappolati nella loro logica autonoma ed esponenziale, ciascuno di questi mondi paralleli agisce come una bomba ad orologeria. È cosa ovvia quando si parla di armi nucleari, ma è anche vera per il debito ed il flusso di capitali. La più piccola intrusione di questi mondi nel nostro, il più leggero incontro tra le loro orbite e la nostra, distruggerebbe immediatamente il fragile equilibrio dei nostri scambi ed economie. Ciò sarebbe (e sarà) vero anche con la totale liberazione dell’informazione, che potrebbe trasformarci in radicali liberi alla disperata ricerca delle nostre molecole in un rarefatto cyberspazio.

facebook public debut

La ragione probabilmente ci richiederebbe di includere questi mondi all’interno del nostro universo omogeneo: le armi nucleari avrebbero così degli usi pacifici, tutto il debito sarebbe ripianato, tutti i flussi di capitali sarebbero reinvestiti in termini di benessere sociale, e l’informazione contribuirebbe alla conoscenza. Ma questa è, senza alcun dubbio, una pericolosa utopia. Che questi mondi rimangano paralleli al nostro, che queste minaccie restino sospese a mezz’aria: la loro eccentricità è ciò che ci protegge. Poiché, non importa quanto paralleli ed eccentrici possano essere, sono in effetti nostri. Siamo noi che li abbiamo creati e piazzati al di là della nostra possibilità di raggiungerli, come un surrogato di trascendenza. Siamo noi che li abbiamo piazzati nelle loro orbite come una sorta di catastrofico immaginario. Ed è probabilmente meglio così. La nostra società una volta era unita da un’utopia di progresso. Oggi esiste solo in funzione di un immaginario catastrofico.

Baudrillard, Jean. “Dette mondiale et univers parallèle”, Libération, lunedì 15 gennaio 1996, pagina 5.

Traduzione: Fabio Alemagna, dalla versione inglese pubblicata su The European Graduate School.

times_square_2_lsp1357