P.K.Dick, Uomo, androide e macchina

In un post di due anni fa scrivevo:

androids7   “Benchè Blade Runner si ispiri al romanzo di Philip Dick Ma gli androidi sognano pecore elettriche (1968), nel film di Ridley Scott mancano elementi importanti come la religione di Mercer (con la sua “empathy box”), il modulatore d’umore Penfield, la trasmissione tv di Buster Friendly, gli animali artificiali e naturali, etc. Ma soprattutto nel film gli androidi (o “replicanti”) vengono eccessivamente umanizzati e “romanticizzati”, mentre è evidente, dalla lettura del romanzo e dalla citazione che segue, (…), che la posizione di Dick sugli androidi è molto più severa e priva di concessioni ambigue e gratificanti, più simile al concetto di  “perturbante” sviluppato da Ernst Jentsch e Sigmund Freud. “

Anche Alessandra Daniele (oggi, lunedì 4 febbraio, su Carmilla) ha fatto all’incirca le stesse considerazioni:

”Blade Runner” capovolge completamente l’originale impianto etico-allegorico del romanzo “Do Androids Dream Of Electric Sheep?”.  Il film suggerisce infatti che gli umani diano la caccia agli androidi – i ”replicanti” – essenzialmente per una forma di razzismo, esplicitata da epiteti sprezzanti come ”skin job”.  Per capire quanto questo sia un ribaltamento delle intenzioni dickiane, basta rileggere cosa PKD intendesse per “androide”: individuo incapace di provare empatia e compassione verso gli altri, e quindi capace di infliggere loro qualsiasi sofferenza, torturando e sterminando con la stessa efficiente indifferenza di una macchina.  Gli androidi del romanzo non sono serial killer isolati, sono perlopiù integrati, organizzati, hanno una polizia parallela, controllano completamente i media. Sono la sociopatia elevata a sistema di potere. Sono nazisti.” (http://www.carmillaonline.com/archives/2013/02/004616.html#004616).

Ma leggiamo cosa ne pensava lo stesso Dick (che arrivò a litigare con gli sceneggiatori del film):

“Nell’universo esistono cose gelide e crudeli, a cui io ho dato il nome di “macchine”. Il loro comportamento mi spaventa, soprattutto quando imita così bene quello umano da produrre in me la sgradevole sensazione che stiano cercando di farsi passare per umane pur non essendolo. In questo caso le chiamo “androidi”. Per “androide” non intendo il risultato di un onesto tentativo di ricreare in laboratorio un essere umano (come si vede nell’ottimo film The Questor Tapes). Mi riferisco invece a una cosa prodotta per ingannarci in modo crudele, spacciandosi con successo per un nostro simile. Che ciò avvenga in un laboratorio o meno per me non ha molta importanza: l’intero universo è una sorta di enorme laboratorio, da cui provengono scaltre e crudeli entità che ci sorridono tendendoci la mano. Ma la loro stretta è quella della morte, e il loro sorriso è di un gelo tombale. Queste creature sono tra noi, e morfologicamente non sono diverse: la differenza che noi postuliamo pertiene al comportamento, non all’essenza.

Nelle mie opere di fantascienza ne ho parlato continuamente. A volte neppure loro sanno di essere androidi. Come Rachael Rosen, possono essere di ottimo aspetto, benché privi di un certo nonsoché; oppure, come Pris in We Can Build You, possono essere realmente usciti da un utero umano e addirittura capaci di progettare androidi – quello di Abraham Lincoln , in quel libro – pur essendo anch’essi privi di calore: rientrano, insomma, nella categoria clinica dello “schizoide”, cioè mancano di sentimenti veri e propri. Sono sicuro che abbiamo in mente la stessa cosa, e sottolineo “cosa”. Un essere umano privo di capacità empatica e di sentimenti è identico a un androide costruito, intenzionalmente o per errore, senza di essi. Ci riferiamo fondamentalmente a qualcuno cui non importa della sorte delle creature viventi sue simili: costui ostenta distacco, come uno spettatore, confermando con la sua indifferenza il teorema di John Donne, secondo cui “no man is an island” [lett: “nessun uomo è un’isola”], ma in una for­mulazione leggermente diversa: un’isola morale e mentale non è un uomo.
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Di questi tempi, il maggiore mutamento in atto nel mondo è probabilmente la tendenza del vivente alla reifi­cazione e, allo stesso tempo, la reciproca compenetrazione di animato e meccanico. Non disponiamo più di una definizione pura del vivente in quanto contrapposto al non-vivente. Il nostro paradigma sarà ben presto il seguente: Hoppy, un personaggio del mio romanzo Dr. Bloodmoney, è una specie di palla umana corredata di un groviglio di servomeccanismi. È solo parzialmente organico, ma interamente vivente: una sua parte è uscita da un utero umano, ma tutto il suo corpo è vivo. Ho in mente il nostro mondo reale, e non quello della fantasia, quando affermo che un giorno avremo milioni di entità ibride a cavallo tra questi due mondi. La definizione dell'”uomo” in quanto contrapposto alla macchina darà luogo a una serie di giochi di parole e rompicapo da sciogliere. La vera preoccupazione presente e futura è: questa entità composita (di cui Palmer Eldritch – per restare ai personaggi dei miei romanzi – è un ottimo esempio) si comporta davvero in modo umano?”

(P.K.Dick, “Uomo, androide e macchina”, in Se vi pare che questo mondo sia brutto, Feltrinelli-InterZone, 1997; e.o. 1976)

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